L’orrore immutato del tempo

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   Tempo di lettura: 9 minuti

La recente lettura del libro “Nel guscio” di Ian McEwan mi ha spinto ad una rinnovata, e a tratti inedita, lettura di un altro romanzo dello stesso autore: Bambini nel tempo. Lo lessi in un’estate calda di quasi trent’anni fa, nel microscopico appartamento che mi vide di nuovo single dopo una separazione dolorosissima.

Il libro comincia con la discesa di un padre all’inferno. Il protagonista è un affermato autore di libri per ragazzi che si sveglia un sabato mattina d’inverno nella sua casa in un quartiere a sud di Londra e va al supermercato dall’altra parte della strada portando con sé la bambina di tre anni. E’ un giorno come gli altri e la città è come sempre rabbuiata dalla nebbia in quelle ore prima che il giorno si riveli, prima che un sabato mattina diventi quel sabato mattina.

L’uomo sta facendo la spesa. Le mani corrono agli scaffali mentre parla con la bambina, che resta con lui per tutto il tempo fino alla comparsa delle poche persone in coda alla cassa. Quello, è il momento in cui cambiano le vite immaginarie e quelle reali, il buco nero nel quale precipita la vita del protagonista e che scuote quelle delle molte migliaia di lettori di questo libro, la mia compresa. Tutto quello che l’uomo fa è girarsi e prendere qualcosa, per poi tornare indietro per continuare a parlare con la figlia. Ma la bambina è scomparsa.

Avevo ventisette anni. Dopo gli anni milanesi, ero da poco tornato al Sud per la mia prima libreria, con un figlio che vedevo poco per via della disastrosa fine del mio primo matrimonio. Quella scena – il panico e la pura casualità del terrore più autentico – mi catturò per non lasciarmi mai più.

Non potevo più guardare i bambini che giocavano negli spazi pubblici senza cercare l’adulto “accompagnatore”. Misuravo involontariamente la distanza tra loro, quel collegamento invisibile che poteva essere spezzato in qualsiasi momento. Per anni non ho ricordato altro del libro se non quel miasma, quell’esalazione insopportabile di dolore misto a follia, e la paura che potesse accadermi una cosa simile. Un punteruolo fissato nel cervello, un pensiero orribile che mi ha rincorso per mesi. Maledivo me stesso per l’idea malsana d’aver preso quel libro in mano.

Ci sono stati altri scrittori inglesi come il Thomas Hardy di Juda l’oscuro o T.S. Eliot di Terra desolata, o anche Coleridge, con la bellezza mozzafiato dei suoi taccuini, che hanno lasciato in me segni profondi. Queste letture, con il loro carico d’immanente tradimento del destino, mi hanno cambiato come lettore e hanno segnato ogni volta il corso immediatamente successivo della mia vita. Bambini nel tempo è arrivato da qualche altra parte, credo. Ha reso immaginabile qualcosa che non avevo immaginato prima e che da allora non ho più potuto non pensare: in un momento qualsiasi e senza una ragione accettabile, tutto può cambiare completamente e segnare un solco profondo tra il prima e il dopo delle nostre vite. Come nel libro, dopotutto.

Ho sempre associato il titolo Bambini nel tempo alla scomparsa di un bambino. Da allora, ogni volta che i media hanno lanciato una notizia simile, io ho pensato a Bambini nel tempo.

Bambini nel tempo è uno studio a diversi livelli sulle prescrizioni educative dettate nel corso degli anni.

In realtà, Bambini nel tempo è anche uno studio a diversi livelli – quanti Ian McEwan può metterne insieme – su come le prescrizioni riguardo l’educazione dei figli cambino nel tempo.

E’ uno studio su com’è cambiato il modo con cui ci rivolgiamo ai nostri figli e su quanto influisce la politica educativa prevalente in un dato periodo. Per fare un esempio tratto dal libro, il protagonista passa ore a fantasticare su una commissione convocata dal governo per produrre un manuale sulla lettura e sullo sviluppo infantile.

E ancora, Bambini nel tempo è un discorso su come l’esperienza del tempo in un bambino sembri essere un eterno presente alla scoperta del mondo e sul modo in cui gli adulti cercano di recuperare quello stato. E’ anche uno studio su come trovare un tempo nuovo da dedicare ai bambini, trasformando il momento del gioco in una nuova infanzia e allo stesso tempo forzare una nuova valutazione dei sistemi di valore intorno alla genitorialità.

Per dirla con gli occhi di oggi – a distanza di trent’anni circa da quella prima lettura – il romanzo mi ha fatto riflettere su come l’arretramento del nostro paese e l’aver venduto alla crisi le nostre vite abbia fatto saltare la gestione del tempo da dedicare ai figli, e come questo abbia favorito il delegare alla scuola non solo l’istruzione, ma anche l’educazione; un’educazione che trova quindi spazio solo poco prima di piazzare i bambini davanti alla televisione. Un’altra delle molte miserie – e orrori – del nostro tempo.

Non è stata una sorpresa allora, ed è una conferma oggi, che data la serietà dell’autore e il rigore con cui si scompongono tutte queste varie questioni, questo libro sia stato pubblicato quando il primogenito di McEwan aveva solo due o tre anni. A modo suo, anche McEwan stava lavorando al mestiere di genitore e lo faceva forse anche attraverso la sua fiction.

A proposito del tempo. Ci sono esempi della perdita del sentimento del tempo da parte del protagonista, e di come il tempo sembri rallentare o accelerare a seconda di ciò che sta accadendo. C’è quella scena del taxi: quei vetri appannati sul sedile posteriore, anni dopo quel sabato mattina, e il protagonista che attraverso di essi scorge la ragazzina muoversi stretta nel cappotto e salire le scale della scuola sotto l’ombrello. Ricordo lo strazio delle pagine successive e ricordo distintamente il momento esatto di dov’ero seduto a leggerle. Ricordo anche il tuffo al cuore e le lacrime amare che generano quelle pagine… un momento davvero infernale per il lettore, ma anche la fine del buco nero per il protagonista da cui può e deve risalire. Quel buio, l’ho toccato anch’io con lui..

C’è saggezza in abbondanza e ci sono anche molte indicazioni. McEwan è particolarmente affascinato dai momenti in cui questi istinti comprensibili s’incurvano in qualcosa di più paralizzante e inquietante. Si sofferma per esempio sul modo in cui un adulto può attaccarsi ad altri adulti che incarnano quella sicurezza e quella libertà dalla responsabilità che un tempo i suoi stessi genitori mostravano, per poi sentirsi traditi quando si rivelavano fallibili e loro stessi bambini persi nel tempo.

Questo è un romanzo sull’infanzia, ma anche sulla crescita e sull’assunzione di responsabilità. È uno studio della famiglia, delle inaspettate modalità dell’amore e di come questo sentimento si compia e si arricci nel tempo, e di come il tempo stesso si compia e si arricci. Molto di questo, sinceramente, lo avevo dimenticato dopo la lettura di più di un quarto di secolo fa. Ma quel momento – lo shock di quel momento – quello no: quello è sempre rimasto con me. L’ho rivissuto un sabato pomeriggio di qualche anno fa negli occhi di un padre: l’uomo aveva perso di vista la sua bambina, che era uscita da sola dalla libreria per essere inghiottita dalla folla di un centro commerciale. Quel terrore nel suo sguardo vuoto durò un’ora, poi la bambina fu ritrovata.

Finisco. Ho un debito di riconoscenza verso questo libro enorme. Per i lettori di domani non ho volutamente raccontato molto della storia, per costringerli a comprarlo.

Per BookAvenue, Michele Genchi

 


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Ian McEwan,
Bambini nel tempo,
Einaudi,
trad. Susanna Basso, pp.264


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