L’argentina che ho visto

   Tempo di lettura: 15 minuti

di Michela Murgia

Il mio viaggio a Buenos Aires e Cordoba è stato molto desiderato, ma non era un’iniziativa privata. E’ stata l’uscita di Ave Mary e di Accabadora nei paesi ispanoparlanti che ha reso possibili gli incontri con la stampa, con le scuole, con le persone che hanno partecipato al Festival Internazionale di Letteratura e con quelle che sono intervenute alle attività del vivace istituto italiano di cultura di Cordoba. A questi impegni di lavoro si è aggiunto l’incontro gioioso con i circoli dei sardi di Buenos Aires, un appuntamento nato grazie alla volontà decisa dei connazionali d’Argentina, a cui sono infinitamente grata per aver saputo creare le circostanze perché potessimo vederci e stare un po’ insieme. L’intero viaggio è durato una decina di giorni, pochi per conoscere un paese così complesso, ma più che bastanti per vedere quello che non può non essere visto. 

La prima cosa che salta all’occhio è che non sembrano esserci persone di colore. In tutte le strade si vedono cittadini di ogni sfumatura di pelle, ma quasi mai nera. Poiché il resto dell’America Latina è abitato dai discendenti della tratta degli schiavi, la stranezza che proprio in Argentina non ne siano rimaste tracce visibili viene motivata in modo reticente: “ne sono morti tanti in guerra”, “se ne sono andati da soli”, “qui non si ambientano”. La contraddizione di questi argomenti si è ripresentata in ogni conversazione, a prescindere dal fatto che l’interlocutore fosse immigrato, nativo, anziano o studente. Solo insistendo sulla domanda è emerso che quell’assenza deriva storicamente dalla volontà dei passati governi di escludere le persone di colore dal grande progetto di fare dell’Argentina il paese più europeo (e quindi il più bianco) dell’America Latina. I nativi discendenti degli Incas e i pochi che conservano i tratti africani sono spregiati con il titolo di “cabecitas negras”; credo che sia a causa di questa resistenza carsica, ancora oggi presente nella società argentina, che le persone di evidente ascendenza mista tendono a dichiarare solo l’appartenenza europea: è l’unica che ritengono socialmente accettata. Queste constatazioni hanno minato alla radice l’iniziale impressione che l’Argentina fosse un paese risolto in rapporto ai conflitti della multietnicità. A dispetto dell’apparente melting pot, se sei più scuro della maggioranza vivere a Cordoba può essere complicato tanto quanto vivere a Treviso. 

L’altro particolare che non si può ignorare è che ci sono militari armati ovunque. La quantità di divise di diversa denominazione che ho incontrato soprattutto a Cordoba contrasta con l’apparente tranquillità che si respira per le sue strade. La vita sembra identica a quella di una città media del sud Italia, ma la presenza di poliziotti armati di pistola e con il walkie talkie sempre gracchiante dà la sensazione di muoversi sotto costante sorveglianza. A Cordoba ho fotografato dei militari denominati “Polizia Turistica”, presenti a decine nei quartieri del centro. Benchè la loro giustificazione ufficiale sia prestare servizio ai turisti in caso “abbiano bisogno di aiuto o informazioni”, è evidente che quei militari in realtà sono lì per impedire agli stranieri di essere avvicinati dai poveri che chiedono l’elemosina. Non si spiega altrimenti l’assenza totale dell’accattonaggio nel centro di una città di un milione e mezzo di abitanti che nelle sue periferie conta più di 150 villas miserias, le favelas argentine. La povertà in questo paese è tanta, ma agli occhi degli stranieri badano bene che rimanga nascosta. L’altra motivazione per la presenza di questo costante dispiegamento di forze dell’ordine è nella storia stessa di Cordoba, una città dove i tumulti sociali hanno spesso funzionato da innesco per quelli del resto del paese. Qualunque casino succeda in Argentina, tutti pensano che comincerà a Cordoba. Questa è la città dove ha studiato Che Guevara e dove ancora oggi la forte presenza dei giovani universitari tiene desto nei poteri politici il timore di un dissenso organizzato. L’impressione che non tutto sia inerte come appare l’ho rivissuta mischiandomi ai manifestanti che protestavano contro la riforma pensionistica provinciale: anche lì c’era un dispiegamento di forze dell’ordine (soldati a piedi, in moto, a cavallo e elicotteri) completamente sproporzionato rispetto alla compostezza dell’evento. 

Il timore dei conflitti sociali è tutt’altro che campato in aria: nonostante nel centro della città ci siano i segni apparenti di un consumismo in via di crescita, il divario economico tra le fasce più deboli della popolazione e quelle più ricche è ampio e visibile. Il segnale più grottesco è l’esistenza dei country, o barrios cerrados, quartieri chiusi dove i cittadini abbienti vivono blindati in paradisi artificiali recintati a cui si accede da una sorta di check-point con guardia armata. Sono zone di altissimo pregio urbanistico che funzionano come un set cinematografico dove va in scena l’ostensione della ricchezza più sfacciata, ma anche l’ossessione di doverla difendere da tutti, costi quel che costi. Visti dall’esterno questi parchi per ricchi sembrano zone militari, invece oltre il filo spinato ci sono strade alberate, prati verdi innaffiati e tosati, laghetti con anatre, campi da golf, ville con piscina e persone che camminano per le strade come se fosse del tutto normale vivere proteggendosi dalla propria città. I quartieri dei ricchi esistono in tutto il mondo, ma solo qui ho visto la loro arroganza spingersi fino a segregarsi fisicamente in un mondo di lusso dove gli unici poveri autorizzati a entrare sono quelli che vanno a indossare la divisa della servitù. All’amico che mi ha ricevuto nel suo barrio cerrado ho chiesto se si rende conto che in caso di rivoluzione popolare i primi posti dove la povera gente verrà a farsi giustizia sono quelli in cui vive lui. Mi ha detto che lo sa. Mentre lasciavamo il country la guardia armata all’ingresso ha fermato il nostro taxi e ci ha perquisito il bagagliaio. Così, tanto per capirsi. 

La chiesa cattolica è molto potente. Il peso economico e culturale degli ordini religiosi è la cosa più evidente di Cordoba, città fondata dagli spagnoli insieme ai gesuiti, che qui costruirono anche la prima università del sud America. Gli edifici del centro appartengono in gran parte a loro e le scuole cattoliche sono ancora predominanti per numero e qualità formativa: a mezzogiorno vedi sciamarne fuori decine di ragazzini in divisa. Nonostante questa presenza qualificata, l’ostentazione della devozione nella gente comune mi è apparsa soprattutto di tipo apotropaico, il più elementare: tutti scongiurano, portano medagliette e simboli religiosi e tengono rosari appesi allo specchietto retrovisore delle auto per allontanare il rischio di incidenti come in qualunque meridione d’Italia. Non a caso questa cattolicità senza strutture si coniuga serenamente con l’esistenza di numerose santerias lungo le strade principali, luoghi in cui la medicina alternativa e la devozione pre-cristiana esercitano congiunte la propria millenaria fascinazione. Cordoba è una città piena di contraddizioni: il peso politico e sociale della sua anima conservatrice e devota conta quanto lo spirito rivoluzionario e egualitario che serpeggia nelle università e nelle elìtes culturali.

La vita culturale è vivace e intelligentemente antagonista. Mi trovavo lì per un festival piuttosto alternativo, catalizzatore di tutte le voci della cultura cordobense che negli spazi istituzionali non trovano possibilità di espressione. Gli organizzatori, tutti giovani, con le idee chiare e determinati, avevano un linguaggio che mi ha riscaldato il cuore: trovare un posto al mondo dove il termine “intellettuale impegnato” non è ancora diventato un insulto ha costituito un conforto di cui avevo molto bisogno. Il mondo universitario è ricco di differenze rispetto al nostro: gli studenti lavorano quasi tutti, ma a scuola sono molto consapevoli dei loro diritti, tra cui quello minore (ma divertente) del mate, che bevono portandosi il termos caldo da casa. E’ un bel posto per essere giovani: la storia di questo paese ha figure ispiratrici senza pari per chi fa cultura per cambiare le cose. Sul palco dove sono salita io c’era anche una delle nonne di Plaza de Majo, le donne straordinarie che chiedono senza sosta notizie del destino dei bambini sottratti ai dissidenti del sanguinario regime del ’76. Accanto a me c’era Washington Cucurto, pseudonimo dello scrittore Santiago Vega, autore di culto in Argentina e fondatore di una incredibile casa editrice, la Eloìsa Cartonera, che pubblica libri con la copertina realizzata con il cartone tirato via dalle strade dai cartoneros, i poveri che riciclano i rifiuti lungo le strade di Buenos Aires e di Cordoba: Santiago Vega ha un anno meno di me e la sua casa editrice è studiata in tutta l’America Latina come fenomeno di resistenza culturale e successo editoriale. La straordinarietà e la sobrietà di questa esperienza mi hanno dato lezioni e mi hanno aperto canali di collaborazione che non intendo lasciar seccare.

La sensibilità civile in Argentina ha ancora forti debiti con il peronismo, che qui è ricordato come un periodo di buon governo. La presidente Cristina Fernandez vedova Kirchner, che ha una storia di formazione personale proprio nell’ala peronista del partito socialista, è molto amata dalle persone di sinistra, che però quando gli chiedi un parere premettono sempre che lo è “nonostante il suo populismo”. Ha toccato i poteri forti, mi garantiscono, e sta procedendo alle riforme necessarie. Soprattutto ha invertito il baricentro simbolico del paese, costringendolo a voltarsi verso le repubbliche sorelle dell’America Latina e ad abbandonare il folle progetto eurocentrico che tanto disastrosamente ha orientato la politica dei governi precendenti a quello di suo marito. Tuttavia la signora Kirchner non sembra disturbata dal culto strisciante della propria personalità, anzi dà segno di incentivarlo, accettando di buon grado di ricalcare simbolicamente il tracciato devozionistico lasciato nella memoria popolare da Evita Peron. I giornali la chiamano confidenzialmente Cristina o “la presidenta Cristina” e la comunicazione istituzionale parla dei successi del governo in chiave estremamente personalizzata, centrata sulla sua figura. La sua popolarità tra la povera gente è favorita dalla struttura federalista dell’Argentina, che attribuisce molto potere ai governatori delle province (quella di Cordoba per estensione è cinque volte l’Italia), per cui la gran parte dei conflitti sociali si consuma localmente. 

Le altre cose che mi hanno colpito sono più che altro personali. L’ingenuità di certi gesti che in Italia vedevo negli anni 80, tipo darti tre caramelle di resto al posto degli spiccioli. Mangiare il dulce de leche con Claudia. Il modo schivo con cui tutti ti rispondono “nooo por favor” quando dici gracias. I sardi di Buenos Aires, che sono venuti a prendermi con i 4 mori appesi al finestrino. La tecnica della milonga del Canning, in cui gli uomini salvano la faccia rendendo inpercettibile l’invito al tango. Le Fiat che in Italia non ha comprato nessuno, tipo la Duna. La carne e il vino, essenziale straordinario. Il modo discreto e costante in cui tutti si aspettano la mancia. Gli studenti del 4° anno di lingue che mi hanno regalato il mate. Il fatto che non esistano indicazioni di sensi unici e tutti vadano a sentimento, e nonostate questo nessuno entri mai contromano. La gentilezza del rabbino Polakoff mentre mi traduce in giacca, sorriso e cravatta. La maglietta de su miraculu di Bitti che mi ha regalato Cesar Meridda. Un agnello in umido con i datteri mangiato al buio mentre con Javier Folco facevamo un progetto comune a dispetto degli oceani. Ascoltare Shine on you crazy diamond a occhi chiusi insieme a Simona e Luca e ricordare che c’è stato un tempo in cui esserci e basta per quelli come noi non era abbastanza. In questo paese senti che tutto può ancora succedere, ma questo non vuol dire (come mi avevano detto prima di partire) che l’Argentina priva di malizie occidentali sia un viaggio nel passato di un’Italia di trent’anni fa. Questo paese ha sulle spalle il peso di una dittatura così recente che credo che i suoi sforzi per andare avanti meritino qualcosa di più dell’accostamento all’Europa più arretrata. Confronto al suo fresco passato l’Argentina vive una progressione esponenziale di benessere e rivincite democratiche; se a tanti sembra ferma agli anni 80 è solo perché si sta ritrovando nel punto esatto in cui gli italiani si sono persi. Non avrei troppa fretta di decidere chi è il passato di chi.

 

le foto del viaggio in Argentina di Michela Murgia

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1 commento

  1. Grazie Michela per condividere con noi la tua penna le tue esperienze che arricchiscono chi ti legge sempre con piacere

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