L’ inserimento della cultura nella strategia del Paese

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” Per essere lungimiranti bisognerebbe immaginare e favorire un’emulsione di praticità e sapienza capaci di  sollevarci dalla decadenza e di condurci all’oraziana aurea mediocritas . La Costituzione pone cultura, ricercae patrimonio paesaggistico, storico e artistico fra le priorità della vita patria e pertanto al di sopra di ogni altro fare. Eppure i ministeri che curano ambiente, patrimonio culturale e turismo sono sempre stati in coda agli altri e fra i più colpiti dai tagli, mentre permangono i privilegi della casta, la grandeur di 131 caccia bombardieri ultracari e i privilegi tributari della Chiesa. Quale trasversale contraddizione!

Il Prof. Andrea Carandini offre ogni volta interessanti spazi di riflessione in merito allo sviluppo culturale del Paese che stimolano una necessaria disamina. Nel recente articolo apparso sul Corrirere della Sera del 13 gennaio il Presidente del Consiglio superiore dei beni culturali analizza dettagliatamente alcune modalità per ritrovare il primato della cultura anche in tempi di recessione. Nel presente articolo prenderò in prestito alcune “verità” del noto professore, non solo tecnico ma soprattutto illuminato e illuminante per la sua straordinaria capacità di divulgare e condividere la conoscenza. Spetta ad un governo come questo – afferma Carandini – nonostante l’invidia dei partiti «occupatevi soltanto di economia!»affrontare il problema posto, non tanto in generale ma come si pone oggi in Italia, dove cultura e turismo compongono il settore che ha meglio retto la crisi.
Del resto è difficile ancora identificare il concetto di cultura da molti considerato superfluo e dunque da tagliare, mentre invece lo stesso, per le ragioni appena esposte, deve avere un posto d’onore quale comparto necessario e vitale per lo sviluppo economico della nazione o semplicemente per fronteggiarne il declino. Afferma oculatamente Sergio Ricossa che “Οίκονομία in greco e oeconomia in latino significarono “norme per la buona amministrazione della casa”. E già l’etimologia rivela il primo vizio della scienza economica: di preferenza non occuparsi del reale, di quel che è, ma dell’ideale, di quel che dovrebbe essere; tendere verso una scienza normativa e rischiare di non essere una scienza affatto; a quel che è vero o falso anteporre quel che è bene o male, buono o cattivo, giusto o ingiusto”. La “casa italiana” possiede tanti tesori che debbono essere bene amministrati, attraverso lo strumento dell’economia della cultura.
Per comprendere il nesso cultura ed economia basti pensare che Adam Smith scrisse di musica, pittura, danza e poesia, mentre John Keynes fu attivamente coinvolto nell’istituzione dell’Arts Council of Great Britain, il principale supporto pubblico alle arti in quel paese fino ad oggi.
Se davvero “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, allora «è necessario e vitale sostenere la cultura». E non è mortificando la cultura che si sana il bilancio dello Stato. Queste sono parole del Presidente Giorgio Napolitano pronunciate quasi un anno fa, prima del diluvio mediatico sulla gravissima crisi finanziaria. Necessario e vitale perché l’arte e la cultura hanno sviluppato, fin dai tempi del Grand Tour, il turismo in Italia. Grazie alla ricchezza di siti culturali, distribuiti su tutto il territorio nazionale, si sono attivati enormi flussi di visitatori con un vantaggio per l’economia locale e nazionale, conferendo alla nostra Nazione una connotazione unica al mondo che ci ha fatto considerare il “BelPaese”.,Se fino a diversi anni fa l’Italia occupava una posizione leader assoluta nel turismo culturale, negli ultimi tempi si stanno perdendo notevoli posizioni e punti PIL in maniera precipitosa e preoccupante. La competitività sul mercato di destinazioni più originali con un marketing territoriale moderno ed efficace, hanno evidenziato una rilevante mancanza di managerialità nella gestione dei territori, malgrado le nostre universali ricchezze, che forse ci salveranno dal naufragio. E questo a parere di chi scrive non è un dato trascurabile e sul quale riflettere.
Ne consegue che l’immagine della Destinazione Italia, anche dal punto di vista del target cultura, necessita certamente di un concreto e nuovo“Rinascimento”.Investire in cultura rende sempre; in materia di cultura non si parla mai di spese, ma di investimenti. Investimento per il futuro. Patrimonio per il futuro. “In quali condizioni lasceremo questi bene al globo noi che siamo stati il gioiello dell’universo?” La gestione e la valorizzazione di un vasto e importante patrimonio culturale come quello italiano impone dunque un’attenta politica culturale di stampo aziendalistico, una ricerca continua di un punto di equilibrio tra tutela e sviluppo economico, tra valorizzazione del bene e attenzione a non “consumarlo”, tra conservazione dell’arte antica e promozione di quella contemporanea.
Al settore della cultura va poco più dello 0,20% del bilancio dello Stato: in Europa la media è decisamente più alta; i beni culturali continuano ad avere valore in sé, sia esso educativo, sociale e artistico. La funzione della tutela resta fondamentale ed è prerogativa dello Stato, come irrinunciabile è il ruolo delle sovrintendenze, di cui alcuni hanno, però, criticato alcuni aspetti ottocenteschi e arretrati. Occorre davvero coniugare passato e presente per programmare il futuro. Dalla sovrintendenze alle “nuove tendenze”. Questo nuovo atteggiamento potrebbe far superare l’ ostacolo al miglioramento e al possibile allargamento dell’offerta culturale. Soprattutto se la scelta di ricorrere al mercato e di adottare modelli di gestione imprenditoriale resta solo un’opzione normativa e puramente formale e non entra concretamente nelle logiche operative dei settori dei beni culturali. Che le scelte propendano per il pubblico o per il privato, restano in ogni caso due problemi:occorrono risorse, spesso ingenti; e capacità di gestire in modo efficiente, non solo per garantire la conservazione, ma anche per assicurare la più ampia fruibilità dei beni e sviluppare turismo e indotto.
L’Italia ha 45 siti considerati dall’Unesco patrimonio universale dell’umanità, realtà che devono diventare fruibili per tutti e la cui tutela e valorizzazione dovrebbe passare soprattutto attraverso le istituzioni. Non è solo un problema di risorse ma di capacita’ ; il che dimostra come il tema vero sia in realtà la poco manageriale gestione delle risorse a disposizione. Il caso Pompei, un abbandono di cui molto si è discusso, viene letto non come una questione di risorse, ma come un fallimento di anni di gestione poco accurata e inefficiente. Ma tante “Pompei” ci sono e ci sono state in Italia. E forse ci saranno. Come il Colosseo che perde pezzi a colpi di incuria e di pastoie burocratiche, in merito alla possibilità di un neo mecenatismo. Ecco perché si concorda con Carandini quando afferma “non è venuto il momento di studiare il contributo dei privati alla gestione del patrimonio pubblico immobile al fine utilizzarlo per conservarlo e comunicarlo?” Ma perché dobbiamo salvare e non curare?
Perché non riusciamo a capire che la Cultura può davvero salvare il Paese per il suo Valore?
Una riflessione sul valore economico dei beni artistici e culturali impone la presa di coscienza che cultura e turismo sono materie prime fondamentali, sono energia alternativa, energia pulita rispettando la necessaria sostenibilità. Del resto siamo o non siamo il Bel Paese?
Occorre pertanto una governance di sistema per la valorizzazione dei beni culturali; questi possono rappresentare una opportunità competitiva importante per il nostro Paese, a condizione che si definisca e si attui una compiuta strategia di valorizzazione dell’immenso, e per molti versi unico, patrimonio culturale. Tuttavia, per evitare che il discorso dei “beni culturali come risorsa” , dunque motrice di una nuova rinascita economica, rimanga pura retorica o solo argomento di convegni, è necessario cominciare a ragionare, mettendo insieme tutti gli attori della filiera di competenze istituzionali, su un modello, su obiettivi, su strumenti condivisi. Oggi assistiamo invece ad una frammentazione delle politiche per la valorizzazione dei beni culturali, con le regioni che perseguono un proprio modello, enti locali che spesso non inseriscono i beni e le attività culturali nel quadro di politiche integrate di sviluppo del territorio, beni culturali di enorme valore che soffrono della mancanza di fondi adeguati per la loro conservazione e promozione e risorse potenzialmente disponibili (ad esempio i fondi strutturali) che non vengono adeguatamente impiegate per il raggiungimento di obiettivi di sistema. “Il costo della incultura per una società è maggiore del costo della cultura” Qui il termine “costo” individuato da F. García Lorca è costo sociale ma anche quello del coraggio di Bilanci che rispettino il bene di un Paese. Bisogna voler bene al Paese e alla sua cultura. Cultura e sviluppo economico sono dei termini da citare sempre congiuntamente. Perché benessere e ricchezza di un Paese si misurano anche rispettando questo legame per alcuni “conservatori” o nostalgici un po ’forzato. La storia dimostra che è la cultura che fa la differenza nel lungo periodo. Funziona da moltiplicatore di possibilità, sviluppa i saperi, agisce sul benessere,accoglie e si confronta, crea innovazione. Se cresce la cultura cresce la società, e se manca la prima non può essere verificata l’equazione. che non occorrono progetti speciali o novità ricercate,ma basta la normalità, la consapevolezza di avere la più grande  concentrazione d’arte al mondo, la volontà di renderla fruibile.
La cultura è una particolarità che fa dell’Italia in tutto il mondo una terra attrattiva e attraente . Una peculiarità che rende necessario investire in cultura, conservare il nostro patrimonio, proteggere il nostro paesaggio. Ma non può ridursi solo a questo, la cultura, come sostengono autorevoli commentatori, non è solo un passato da studiare e mostrare, è soprattutto un presente da vivere, la capacità di esprimerlo e di concretizzarlo in esperienze creative, in grado di far germogliare i semi del futuro, un’esperienza che potrà essere tanto più ricca per quanto saprà avvalersi della consapevolezza e della vastità della sua storia. Per  questo investire in cultura non può essere ristretto alla sola protezione del patrimonio, né tanto meno deve avere il significato di spesa a “fondo perduto”, ma deve avere tutte le caratteristiche della spesa di investimento. Niente, infatti, è potenzialmente più redditizio. Investire in conoscenza è già di per sé un  investimento produttivo, e non si può banalizzare riducendolo ad un errato sillogismo: se la cultura è una ricchezza del paese, come ogni ricchezza deve produrre reddito e lo deve, preferibilmente, produrre nel breve e medio periodo. Niente è più sbagliato, superficiale e pericoloso. Va evidenziata la vischiosità dell’impostazione che vede il patrimonio culturale come un insieme statico che non ha bisogno di riprodursi e alimentarsi, ma solo di essere conservato per essere fruito (non a caso la parola “fruizione” si è  recentemente affiancata anche per il legislatore ai più antichi termini di valorizzazione e gestione) ovvero usato e sfruttato. “siamo più vicini al Rinascimento che alla rivoluzione industriale” afferma ancora Carandini che evidenzia “ma ce ne siamo accorti?” e continua “la crisi , tuttavia, è anche l’occasione per una riforma delle abitudine morali e mentali capaci di sprigionare creatività, la voglia di rischio e competitività” per “un inserimento della cultura nella strategia del Paese: una nuova filosofia della produzione, per valorizzare il capitale umano” Dio salvi l’Italia! Ma prima dobbiamo salvare noi stessi “se vogliamo elevarci non soltanto come animali ma anche come uomini, secondo l’ordinamento della Repubblica democratica e secondo la religione che ci vede immagini di Dio”.
Non è un caso che l’attuale decadenza dell’Italia si manifesti non solo come crisi economica, di cui tutti si occupano, ma anche come crisi culturale, di cui troppo pochi si preoccupano in un momento in cui la cultura è ormai una necessità diffusa.
“A lenire i guai, se non le disperazioni, aiuterebbe ad apprezzare cose insolite: conoscere una città ignota e vicina, ascoltare suoni come quelli di un’arpa, gustare un nuovo sapore, camminare per riabituarci a pensare, esercitare la calligrafia, divenire registi di un proprio spettacolo mentale leggendo un romanzo dell’800, conoscere le teorie indimostrate di un astrofisico, lavorre il legno, sprofondare nel cammino dell’umanità…Attivitàmentali variegate servono a scrollarci dalla depressione ma anche a produrre meglio cose funzionali e belle, capaci di imporsi sul mercato, come ha fatto steve jobs, eroe della conoscenza, della tecnologia e dell’estetica applicati alla produzione di cose quotidiane”.

per BookAvenue, Antonio Capitano

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