Intervista a Dacia Maraini

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Vive a Roma in un appartamento all’ottavo piano. Con un cruccio: «Non so dove mettere i libri». Per avere più spazio, trascorre sei mesi all’anno nella sua grande casa in montagna, «a 1200 metri di altezza, nel parco nazionale dell’Abruzzo. Scrivendo e facendo lunghe passeggiate», confida.
È una donna serena e forte, Dacia Maraini, in una forma assolutamente spettacolare rispetto agli anni che nessuno mai le darebbe. «Sarà perché cammino molto – sorride, illuminando gli occhi chiari e luminosi – anche quando non ne ho voglia, visto che avere un cane mi obbliga a uscire almeno quattro volte al giorno. A Roma vado in piscina due volte a settimana; e poi d’inverno c’è lo sci».

Fra i suoi grandi amori torna l’ambiente, che l’ha portata in Toscana, ospite della Rassegna “I Boschi delle Parole”, organizzata dal Comune di Carmignano…
«Certamente, un’occasione per riflettere su questi temi, che effettivamente mi stanno molto a cuore. Non è un caso che sia vegetariana da ormai quindici anni».
Come trova il nostro Paese, ecologicamente parlando?
«Devo dire che gli italiani oggi sono più sensibili; i guasti maggiori sono stati fatti negli anni ’60 e ’70. Si distruggeva allora, senza pensare alle conseguenze di quella cementificazione indiscriminata. Sto leggendo un libro molto interessante, in cui è scritto che, ogni anno, al mondo si costruisce l’equivalente di un’intera regione».
A proposito di letture, come sceglie le sue Dacia Marini?
«Sono dentro molti premi letterari, quindi un’infinità di titoli sono un dovere, prima che un piacere. Per me stessa, spesso rileggo i classici. Vado continuamente in libreria, proprio come i comuni mortali. E poi la natura mi aiuta».
In che senso?
«Dormo poco, massimo cinque ore a notte. Caratteristica che ti lascia molto tempo. Inoltre non conduco una vita molto mondana, non vado in giro e diserto le feste».
Però c’è il teatro.
«Certamente, una grande arte che ho scelto di coltivare scrivendo sceneggiature (il 20 luglio ha debuttato a Roma “Enrichetta Pisacane” su uno degli amori più sentiti e sofferti della storia del Risorgimento italiano), fondando il Teatro della Maddalena e dirigendo il Festival delle Due Rocche, che partirà l’8 settembre».
Qual è l’aspetto che la intriga del palcoscenico?
«Interagire. Lavorare gomito a gomito con altre persone. Vede, il mio è un lavoro sedentario e solitario, ho fisicamente bisogno di questa immersione negli altri».
Natura, libri, palcoscenico. E un’altra grande passione: i viaggi. Esiste un Paese in cui non è ancora stata e dove vorrebbe andare?
«Sì, il Tibet, che conosco attraverso i racconti di mio padre, ma non ho ancora avuto occasione di visitare. Posso rimediare».
Il suo albero genealogico (una nonna di origini cilene, un’altra al 50 per cento polacca e al 50 per cento inglese) non conosce confini. E poi, fin da piccolissima, ha vissuto molto lontano da casa: un vizio di famiglia?
«Mio padre, etnologo, fu un formidabile viaggiatore: con lui andammo a vivere in Giappone quando avevo appena due anni, perché aveva vinto una borsa di studio. Allora i giapponesi erano alleati del Duce, e chiesero agli italiani di aderire alla Repubblica di Salò: i miei genitori si rifiutarono e venimmo rinchiusi per due anni in un campo di concentramento. Non ho subito traumi, e in Giappone sono tornata».
Nel suo ultimo libro “La seduzione dell’altrove”, non mancano note di viaggi, articoli, appunti di diario…
«Un racconto riguarda proprio il viaggio al quale sono maggiormente legata, quello in Africa con Alberto Moravia».
Eppure la “sua” Africa sembra averla profondamente delusa: possibile?
«È vero. Sono andata in Africa anche con Pasolini e con Maria Callas, ma tornandoci ho trovato un continente sconvolto dalle guerre intestine e dal dilagare dell’Aids. Una dimensione ipocrita e ostile».
Per scrivere “La seduzione dell’altrove” ha impiegato tre anni: colpa (merito) della sua attenzione al linguaggio?
«Scrivo sempre una prima versione, che poi rifaccio, e migliorare la lingua è uno dei miei obiettivi. Inoltre faccio personalmente la correzione delle bozze e qualche errore, qualche ripetizione (che, come diceva Flaubert, sono come le pulci e non riesci mai a liberartene), li trovi sempre».
Fra i suoi libri, ce n’è uno che ama di più?
«Inevitabilmente, l’ultimo: quando abiti in un testo per tre anni, non è facile staccarsene. Anche se le soddisfazioni maggiori me le ha date “La lunga vita di Marianna Ucrìa”, con oltre un milione di copie vendute».
Quello che vorrebbe fosse suo?
«Pinocchio, scritto in un italiano bellissimo e pieno di umorismo, pur contenendo mille significati profondi e attuali».
E quello che sta preparando?
«Non è ancora finito, per questo non entrerò nei dettagli: posso dire che si tratta di un romanzo. Riguarda la memoria, la mia vita».

Letizia Cini

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