Stato di clandestinità

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C’è qualcosa nell’aggettivo “clandestino” che irrita il mio concetto di civiltà. Quando la clandestinità si riferisce a persone, abbiamo tutti tristemente chiaro che cosa significhi: cittadinanze di pochi, diritti solo per alcuni e nascondimento e persecuzione per tutti gli altri. Ma non siamo abituati ad associare la condizione di clandestinità all’informazione, anche perché nei paesi civili non esiste l’informazione clandestina: dove c’è la democrazia tutta la stampa è legittima e circola liberamente. Anche la Costituzione italiana suggerisce il medesimo concetto nell’articolo 21, quando sancisce che la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Non si comprende come in base a quel principio possa ancora esistere nel nostro ordinamento giuridico l’assurdo reato di “stampa clandestina”, risalente al 1948, che sottende invece l’idea che esistano esercizi d’informazione legittimi e altri che invece non lo sono.

Per quel reato di stampo fascista è stato appena condannato un uomo che aveva un semplice blog di informazione non periodica, identico a quello di migliaia di altri utenti che ogni giorno si collegano ad internet dalle loro abitazioni. Il suo nome è Carlo Ruta, giornalista, saggista e padrone di Accadeinsicilia, un sito che prima di essere oscurato si occupava degli intrecci tra mafia e politica corrotta. La condanna è ancora in secondo grado, ma in attesa della Cassazione rimane il fatto inaudito che da oggi ogni blogger che esercita la libertà di informazione può considerarsi a rischio di clandestinità. Non è strano: se la politica e la magistratura si occupano di regolamentare l’informazione la stanno in realtà riconoscendo temibile come dovrebbe esserlo ogni contropotere. Basterebbe guardare come, dal decreto Romani per la “regolamentazione” dei canali video on line alla proposta di legge bavaglio dello scorso luglio, negli ultimi quindici anni in questo paese abbiamo assistito a tentativi continui di attacco legislativo alla libertà di stampa e d’opinione, con i quali si è cercato di tacitare soprattutto le nuove forme di diffusione dell’informazione dal basso, come i video amatoriali e i blog. A causa di queste politiche l’Italia occupa oggi un imbarazzante 75° posto nella classifica mondiale della libertà di stampa redatta ogni anno da Freedom House, una posizione ben distante dai suoi partner europei e dietro a paesi come il Benin e la Guyana. L’esistenza della nicchia corporativa dell’ordine dei giornalisti, spesso più attenta a rimarcare le differenze tra chi può e chi non può fare informazione piuttosto che a tutelarne la qualità, di sicuro non aiuta a risalire la classifica della civiltà. Nel mare delle leggi bavaglio, solo un clandestino ci salverà.

Michela Murgia

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