Emmanuel Carrère, La vita come un romanzo russo

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I libri di Carrere pongono sempre più di qualche difficoltà. Sia nel definirli, sia nel recensirli. E forse questa è la dimostrazione che ci si trova dinanzi a uno scrittore quantomeno complesso. C’è sempre, tra le sue righe, come una fastidiosa musica di sottofondo. E non si riesce mai a capire se sia la storia o un personaggio o l’atmosfera tutta del libro. Vi ricordate la “Settimana bianca” o “L’avversario”? Fin dalle prime pagine, senza bisogno di sapere come proseguisse la storia, si veniva sommersi da un senso di disagio, quasi di freddo.

Eppure anche questi libri, come l’ultimo, sono bellissimi. La struttura è composita nel tempo e nello spazio. Il contenuto apparentemente semplice e il significato drammaticamente ‘pesante’ per l’autore. Forse autobiografico in tutto, forse no, questo libro parla la lingua difficile di una cercata e a lungo maturata resa dei conti. Gli elementi narrativi principali attorno a cui Carrere costruisce il suo libro sono tre: la storia dell’ultimo prigioniero della seconda guerra mondiale, ricoverato per più di cinquant’anni in un manicomio; la figura misteriosa e sfuggente del nonno; la storia d’amore intricata e autodistruttiva con Sophie. Fin qui niente di straordinario.

Ciò che rende questo libro estremamente interessante è il modo in cui lo scrittore tiene insieme queste storie, tra la Russia e la Francia, tra l’oggi e il passato. In bilico anche linguisticamente tra francese e russo. Carrere si reca in uno sperduto villaggio a molte ore di treno da Mosca per girare un reportage legato alla storia di questo prigioniero. Il reportage diviene poi un racconto sulla vita di alcune persone che lì vivono. Poi, in un certo senso, diviene un percorso dentro la vita dello scrittore stesso. I suoi rapporti con la madre e il nonno, un collaborazionista morto in circostanze misteriose, diventano qualcosa che blocca la sua vita intera, una cappa di orrore e follia che fa da filo conduttore ai suoi giorni. C’è un non detto, un non raccontato che per Carrerre scrittore cresce nel corso della sua intera esistenza come una prigione fisica e mentale. I rapporti con se stesso e con gli altri divengono un groviglio inestricabile, una perenne attesa che qualcosa accada.

Il viaggio in Russia non assomiglia per nulla a un movimento ma, semmai, al bisogno di trasferire altrove l’attesa. In realtà la sua vita è piena di avvenimenti piccoli e grandi ma l’immobilità apparente avvolge ogni cosa come un alibi. Carrere individua nel recupero della lingua russa il modo per scrollarsi di dosso l’angoscia perenne che lo accompagna. Il russo, quella lingua che gli parlava la tata, quella lingua che sua madre non usava con lui ma che Emmanuel sente essere un contenuto e non solo un contenitore. C’è qualcosa che si può recuperare solo con quella lingua, qualcosa che può essere espresso solo con quella lingua. Le pagine in cui racconta le sue oscillazioni umorali e di pensiero a seconda della disinvoltura con cui riesce ad usarla sono straordinariamente complesse e interessanti. Sembra di avere a che fare, non solo con due racconti diversi, ma con due modalità di pensiero diverse a seconda che sia la lingua francese o quella russa a fare da supporto grammaticale e strutturale ai suoi pensieri.

Carrere è straordinario nell’immergerci anche fisicamente nei suoi romanzi leggendo i quali ci si sente mescolati con ogni riga. Le pagine del soggiorno in Russia ci fanno vivere il buio, la neve e il freddo che poi sono il buio, la neve e il freddo della storia stessa. Il piccolo villaggio diventa teatro di accadimenti esterni ed interni alla mente dello scrittore, sollecitandolo di continuo alla necessità di mettere tutto nero su bianco. Anche ciò che ferisce. E così il passato si intreccia con il presente condizionandolo con paure e paranoie che finiranno con l’uccidere anche l’amore con Sophie. C’è una forma di follia che sembra attraversare tutta la famiglia dello scrittore. Una follia che, nella madre si manifesta con la disperata difesa di un segreto, quindi con una forma di potere linguistico basato sul silenzio. E in Emmanuel la follia prende la forma di un desiderio di controllo totale su cose e persone, che lui pensa di poter esercitare con la parola. Ancora torna il vero tema centrale del libro: la scrittura e la parola. E il rischio di una forma di schizofrenia oscillante tra lingua razionale (il francese) e quella del profondo (il russo). Che sembrano anche assolvere a due funzioni diverse, il francese come lingua direi pubblica e il russo come lingua del segreto. Questo è un libro composto da molti strati e, in quanto tale, offre diversi livelli di lettura; romanzo storico, storia familiare, diario di lavoro, storia d’amore. Un lungo canto di paure inutilmente recintate in un’impossibile sceneggiatura scritta a tavolino.

Geraldine Meyer


Si ringrazia la redazione di “Sul Romanzo” e, naturalmente, l’Autrice

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