Non sappiamo più sognare altri mondi

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Un tempo si sosteneva che “tutto è politica”. Ora che nulla lo è più, domina il conformismo.

In che mondo viviamo? Si vada al cinema a vedere i film premiati nelle due più importanti rassegne italiane, quella di Venezia e quella di Roma. Documentari sulla vita miserevole che si svolge lungo il raccordo anulare di Roma; sguardi dal finestrino di un tir su anonime esistenze.

In pochi hanno pagato il biglietto per andare ad osservare quello che succede nell’estrema periferia romana, e pochi saranno quelli incuriositi dalle stucchevoli visioni dal finestrino del tir. Se poi dalle sale cinematografiche passiamo in libreria, affidandoci a chi fa il bello e il cattivo tempo nella critica letteraria, dovremmo leggere romanzi-documentari, senza invenzioni, senza fantasia. È troppo chiedere storie coinvolgenti, mondi immaginari, utopie, visioni? Non è troppo, è da fessi.

Alla fine degli anni ’60 e di quelli immediatamente successivi, tra intellettuali e artisti di ogni genere circolava la parola d’ordine «tutto è politica». Oggi – ormai da un po’ di tempo – più nulla di ciò che dà un significato o un valore alla vita sembra dipendere dalla politica, se non negativamente. «Tutto è politica» aveva il senso ideologico di impegnare le risorse intellettuali, creative in un progetto di trasformazione della realtà oppure di conservazione di fronte a pressioni rivoluzionarie. Molta enfasi, in questa concezione della cultura, ma almeno non era noiosa.

Da quando la politica si è ridotta a semplice gestione di affari, il disincanto culturale ha incominciato a rappresentare l’impotenza: prima dimostrandosi incapace ad affrontare i grandi temi post-ideologici – come quelli dell’ecologia, dell’ingegneria genetica, della comunicazione informatica – poi dimenticandoli. D’altra parte, quale visione politica sostenere culturalmente se non c’è più un modello di società da difendere contro un altro? Perché essere conservatori quando non ci sono più rivoluzionari, o viceversa? Quando la politica è una formalità gestionale, la politica è morta. E la letteratura, l’arte, il cinema? Conviene lasciarli vivacchiare sottotraccia, in una malinconica espressione di sé. A chi conviene? Sarebbe bello rispondere alla politica, al potere, alla crudele violenza del mercato. Purtroppo non è così. Purtroppo, perché si avrebbe il nemico da combattere o, più modestamente, con cui prendersela. Invece conviene al conformismo culturale in cui, come si sa, sguazza la mediocrità in tutta sicurezza e senza infastidire nessuno. Si provi a rompere questo conformismo, e il conformismo ti risucchierà come sabbia mobile nell’anonimato.

Così, dall’atteggiamento prudente di lasciare nel cassetto storie coinvolgenti, visioni del mondo, progetti utopici che hanno sempre animato la grande arte e, comunque, coloro che con generosità hanno scommesso sul loro destino di artisti, si è finito per trasformare la prudenza in un convinto atteggiamento culturale. Documentari, racconti di storie banali, noiose osservazioni di una realtà già di per sé noiosa: si bolle e ribolle la stessa minestra. C’è da chiedersi quanto la gente ami questa ribollita. Come è disgustata dalla politica, allontanandosene, così rifiuta il conformismo culturale che rispecchia o conferma quella politica: la gente non va al cinema, non compra libri. Certamente vorrebbe altro. Lo si comprende parlando con gli studenti oppure guardando ciò che succede in questi giorni al cinema, con il film di Checco Zalone che ha stracciato tutti i record d’incasso. Troppo facile sostenere che il suo successo è figlio della superficialità della gente, dell’ignoranza: sembra la critica di Nanni Moretti ai film di Alberto Sordi. Quel film ha un’immediata, comprensibile funzione catartica: la gente corre a vederlo perché si diverte a ridere di se stessa, liberandosi inconsciamente di un mondo che la opprime. Quella gente vorrebbe che qualcuno l’aiutasse a sognare un mondo diverso da quello raccontato da Checco Zalone ma, dal momento che nessuno glielo propone, preferisce ridere con il comico che annoiarsi a morte guardando quanto accade nel raccordo anulare di Roma o osservando la vita dal finestrino di un tir.

Rappresentare il sogno di un altro mondo: chi, se non l’artista, lo scrittore, il musicista, l’uomo di cinema e di teatro, dovrebbe assumersi questo compito? Ma quei pochi che hanno il coraggio di tentare, sanno di doversi misurare con il conformismo del sistema della critica che non perdona chi esce dal suo cerchio. Meglio fare documentari e vivere sereni.

Stefano Zecchi

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