Risorgimento: interviste impossibili a personaggi illustri

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Torino, addì 17 marzo 1861, nasce l’Italia. Sulla carta è un paese giovane: 150 anni fra due mesi esatti. Come tutti i compleanni, anche questa è un’occasione per far festa ma anche qualche bilancio. Abbiamo cominciato a chiedere ad alcuni italiani famosi che cosa li rendesse orgogliosi di essere italiani. Con una tipica “intervista impossibile” avremmo potuto cominciare con Dante e scoprire che molti, oggi, condividono i suoi famosi versi del VI canto del Purgatorio: “Ahi serva Italia, di dolore ostello/nave sanza nocchiere in gran tempesta, /non donna di provincie, ma bordello!”. Quasi nessuno degli intervistati ha parlato del presente e, se lo ha fatto, è stato con parole di sconforto. Molti hanno risposto evocando il passato, le nostre grandi glorie.

 Che cos’è allora che ci prepariamo a festeggiare? Perché Giotto, il Rinascimento, Leopardi, il Rigoletto, che vengono prima del 1861, sono considerati dagli italiani di oggi patrimonio comune, di cui essere fieri? Perché ciò che definisce l’identità di un paese è la sua unità geografica, politica, linguistica, culturale e anche religiosa. Italia è un termine che si sente pronunciare nella nostra penisola dal VI secolo a.C. Se l’origine del termine sia greca, africana, latina, etrusca, osca o addirittura semitica qui poco importa. Con la sua forma a stivale e la corona dell’arco alpino a delimitarla, l’Italia esiste dal I secolo a.C. come unitaria provincia romana. Con il crollo dell’impero andrà perduta l’unità politico-amministrativa di questo territorio ma non certo l’ idea di Italia come entità geografica.

Dopo la geografia, anche la lingua. Quella che noi parliamo oggi è figlia del latino e si forma nel corso del Medioevo, su forti basi toscane ma anche siciliane. E nonostante tutto è una lingua di lungo corso, tanto che è molto più semplice, oggi, per un ragazzo italiano leggere una novella di Boccaccio che per uno inglese comprendere Chaucer o Shakespeare. E dalla lingua discende con naturalezza anche la nostra unità culturale, nella musica e nella letteratura, in un territorio in cui si susseguono o si affiancano i poteri dei signori e delle città, dei papi e dei re, dei francesi e degli spagnoli. Per legittimare attraverso le immagini questi poteri, spesso fragili o discutibili, per abbellire le chiese, le cappelle private, i palazzi e le ville di qualche committente, per assicurare un posto in paradiso e uno nella considerazione degli uomini a qualche banchiere, gli artisti in Italia si muovono moltissimo. Ed è anche per questo che non v’è angolo, nel nostro Paese, non v’è pieve sperduta dove non si ammiri qualche capolavoro.

Infine l’unità religiosa, un fatto che in Italia è difficile mettere in questione, perché le radici del cattolicesimo sono profondissime, anche in senso culturale e antropologico. Nel 1861 all’Italia mancava soltanto che questo territorio, questa lingua, cultura e religione venissero riunificati in uno stato sovrano e questo sforzo è stato il nostro Risorgimento. Questo, dunque, si celebra quest’anno: centocinquanta anni di unità politica, propriamente la ciliegina sulla torta. Potrà sembrare a qualcuno una ben misera conquista. Invece dell’inno, per spegnere le candeline, si potrebbe intonare con Giorgio Gaber “Io non mi sento italiano” con quel suo “Mi scusi Presidente” all’inizio, che fa sempre un certo effetto.

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