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La democrazia di Joe Biden

   Tempo di lettura: 13 minuti

[1]La vittoria di Joe Biden alla corsa per la Casa Bianca rappresenta il trionfo massimo della democrazia nei confronti delle sue degenerazioni tanto temute e studiate nell’ultimo decennio o, al contrario, è il segno più evidente di tali cambiamenti, ormai sempre più reali e tangibili? La risposta più naturale pare essere la prima, la degenerazione populista, estremista, trumpista come ormai è uso comune definire, è stata sconfitta. L’errore è stato corretto, la storia insegna che gli sbagli non vanno mai ripetuti e l’uomo osserva sempre in silenzio tutto ciò che il tempo rivela. Dal 1993 ad oggi tutti gli ospiti della Casa Bianca hanno dovuto terminare il loro soggiorno solo per l’impossibilità di candidarsi nuovamente per un terzo mandato, l’ultimo presidente costretto a lasciare l’incarico dopo i primi 4 anni è stato Bush padre, insomma un messaggio forte e chiaro per Donald.

 

Hanna Arendt nel 1958 partoriva il concetto di public realm, lo spazio pubblico, concetto che vede nel pubblico dei cittadini il depositario dei processi e delle strutture della democrazia. Secondo la Arendt è nella polis greca che troviamo l’esempio massimo di uno spazio condiviso da liberi cittadini che usano un linguaggio comune, cercando di persuadersi l’un l’altro. Habermas 4 anni dopo, nel 1962, definisce il suo concetto di sfera pubblica borghese, in linea con la definizione della Arendt, immaginando però, come luogo ideale per lo sviluppo democratico, i salotti, i circoli e i caffè di Londra e Parigi. Come in Grecia, anche nell’Europa della prima modernità la sfera pubblica è costituita in primis dalla discussione e dal confronto, cioè dallo scambio di parole all’interno di un luogo condiviso. Lo scambio e la discussione tra le parti sono possibili solo in un ambiente di non coercizione, soltanto così il momento della scelta, climax e traguardo del lungo percorso-scontro tra opinioni e pensieri liberi si conclude; l’interminabile viaggio democratico prende vita solo con quel breve, intenso e travolgente, baleno che è la scelta del vincitore.

Possiamo in questo modo descrivere la scienza politica in termini fisici, abbiamo definito il tempo e lo spazio, il contenitore della democrazia è chiaro, giace lungo le due dimensioni della realtà. Ma manca ancora il contenuto. Il pensiero comune non associa, fortunatamente, la nascita della democrazia all’effettivo momento storico in cui questa forma di governo appare per la prima volta. Nella Grecia antica il potere non era nelle mani di tutti: lo scontro avveniva in pubblico, le forze in gioco erano più d’una, ma a scontrarsi non era il pubblico e a detenere la forza erano certamente in pochi. Le reali vittorie della democrazia sono esclusivamente legate all’ottenimento del potere da parte delle minoranze, intese come chi non detiene diritto d’autorità: le differenze etniche, religiose, di genere e sociali hanno sempre caratterizzato la difficoltà di ottenimento del potere.

Le tappe più importanti del processo democratico sono quindi associate alla rottura di queste barriere, quando la volontà del più debole vale quanto quello del più forte, quella è la democrazia. Quando tali minoranze riescono ad ottenere la possibilità di scelta difficilmente rimettono il potere nelle mani di chi già lo deteneva senza il loro consenso, anche in casi in cui forse sarebbe per loro più conveniente. È un processo psicologico abbastanza intuitivo in cui possiamo riconoscersi tutti in un qualunque momento della nostra quotidianità. A rigor di logica possiamo allora concludere che la democrazia, quella autentica, si realizza quando le minoranze acquisiscono il potere di scelta, se ciò avviene lo scontro è vinto tendenzialmente dal favorito delle suddette minoranze, storicamente in conflitto con chi deteneva il potere in precedenza, con chi definiamo parte dell’establishment; establishment è una parola che suscita naturalmente fastidio, chi non odia l’establishment? Nessuno ne vuole fare parte, è un gruppo così fragile e cangiante ma allo stesso tempo solido e immutabile che risulta persino difficile da descrivere.

Spesso la democrazia viene raccontata, per poterla visualizzare in maniera più nitida, sotto forma di rivolta, o di rivoluzione. È celebre il dialogo risalente all’anno 1789 tra Luigi XVI e il duca di Liancourt. Il primo domanda: “Mais c’est une révolte?” e il secondo risponde: “Non, Sire, c’est une révolution!”. Sappiamo bene quale è stata la sorte del Luigi in questione. L’abolizione della monarchia assoluta, l’eliminazione delle basi economiche e sociali dell’Ancien Régime; la rivolta del popolo al giogo dell’autorità tradizionale weberiana è la massima realizzazione della democrazia, la rivincita degli oppressi, la voce dei poveri e degli schiacciati, la sconfitta e l’eliminazione, fisica, dell’establishment, queste sono le basi delle future rivoluzioni democratiche del XIX secolo. La Carta del 1814 garantiva un sistema legislativo bicamerale, di cui la seconda era una camera dei deputati elettiva. Come mai allora il periodo della Restaurazione Francese, con il ritorno della monarchia borbonica, dove il potere che, come calamitato, è nuovamente nella mani di chi lo aveva tanto amato negli anni passati, non viene certo ricordato, forse a torto, come svolta fondamentale per l’affermazione della democrazia? Abbiamo anche il contenuto: potere al popolo, morte ai potenti. Il legame ideologico che la Francia, patria della democrazia, instaura con un paese quali gli Stati Uniti è evidenziato dal contenuto di quelle circa duemila casse regalo che passò alla storia per essere uno dei simboli della democrazia: la Statua della Libertà. Le elezioni del presidente americano non possono quindi che essere uno dei termometri più accurati per misurare la salute della democrazia nel mondo.

Novembre 2020, ha vinto Joe Biden. Il tempo e lo spazio: martedì 3 Novembre 2020, l’election day, non è stato né il tempo né lo spazio, più di 100 milioni di americani hanno votato anticipatamente alle elezioni per il 46esimo presidente degli Stati Uniti. Nel 2016 erano state circa 50 milioni, l’aumento è stato superiore al 100%. I voti ricevuti precedentemente rispetto all’election day si sono poi rivelati essere fondamentali per la vittoria di Joe Biden, lo sfida a colpi di fioretto nella piazza comune è stata vinta con un colpo di pistola sparato da lontano, la strategia porta quindi alla vittoria. Il contenuto: il salario minimo orario a San Francisco è 15,59 dollari all’ora, il salario minimo in Texas è invece 7,25 dollari all’ora. Quale dei due stati rappresenta quindi il popolo americano? Il 76% dei cubani arrivati in florida tra il 2010 e il 2015 si è identificata come repubblicana e supporter di Trump. La tendenza è stata molto simile anche in Texas, in particolare nelle contee al confine con il Messico. Nella più grande di queste, Hidalgo, con il 90% di abitanti latinoamericani, I democratici hanno dimezzato il loro margine rispetto al 2016; nella vicina Starr hanno addirittura perso 55 punti di scarto rispetto alla scorsa tornata, passando da un vantaggio del 60% al misero margine di 5%. Quanti di questi fanno parte del tessuto sociale più oppresso d’America? Sicuramente i Dem hanno ancora il pieno supporto degli afroamericani, ma il risultato di quest’anno, con l’87% di voti, è in discesa rispetto a quello di 4 anni fa, quando ottennero l’89% e nettamente in calo rispetto alla quasi totalità conquistata da Obama nel 2008, che raggiunse il 95%.[1]

Il dato più sconcertante è però un altro, infatti quest’anno Biden ha ricevuto esplicito sostegno da parte della sinistra più estrema, rappresentata da Bernie Sanders, e dall’amico, nonché ex presidente democratico Barack Obama, ma anche dall’ex presidente repubblicano George W. Bush, sotto cui si avviò la seconda guerra del Golfo, e da Cindy McCain, moglie del defunto John McCain, ex militare e senatore repubblicano dell’Arizona. L’establishment non ha perso, si è ricompattato e solo così è riuscito a vincere. I deboli possono finalmente tornare ad osservare la partita di scacchi dorati dove gli ideali democratici e repubblicani si affrontano, senza mai ferirsi, da più di due secoli e mezzo. Il popolo ha perso, e con lui la democrazia che al popolo appartiene. La vittoria di Biden è sicuramente un trionfo anche per quasi tutti noi amanti della democrazia in Europa e nel mondo, ma, forse, lo è un po’ meno per la democrazia stessa.>

 

Pietro Valfrè per Sovrapposizioni [2]


Il libro

Un ricordo profondamente toccante dell’anno che cambierà per sempre una famiglia e un paese. Nel novembre 2014, tredici membri della famiglia Biden si sono riuniti a Nantucket per il giorno del Ringraziamento, una tradizione che celebravano da quarant’anni; era l’unica costante in quella che era diventata una vita frenetica e programmata. La festa del Ringraziamento è stata una tregua necessaria, un momento per riconnettersi, un momento per riflettere su ciò che quell’anno aveva portato e su ciò che il futuro poteva riservare. Ma il 2014 è stato un anno diverso da tutti i precedenti. Al figlio maggiore di Joe e Jill Biden, Beau, era stato diagnosticato un tumore cerebrale maligno quindici mesi prima e la sua sopravvivenza era incerta. “Promettimelo, papà,” aveva detto Beau a suo padre. “Dammi la tua parola che, qualunque cosa accada, starai bene.” Joe Biden gli ha dato la sua parola. Promise Me, Dad racconta l’anno successivo, che sarebbe stato il più importante e impegnativo nella straordinaria vita e carriera di Joe Biden.

L’allora vicepresidente Biden ha viaggiato per milioni di chilometri quell’anno, in tutto il mondo, affrontando le crisi in Ucraina, America Centrale e Iraq. Quando arrivava una chiamata da New York, da Capitol Hill, da Kiev o da Baghdad – “Joe, ho bisogno del tuo aiuto” – ha risposto. Per dodici mesi, mentre Beau combatteva e poi perso la vita, il vice presidente ha bilanciato i due imperativi di essere all’altezza delle sue responsabilità verso il suo paese e le sue responsabilità verso la sua famiglia. L’anno ha portato un vero trionfo e successo, e un dolore lancinante. Ma anche nei momenti peggiori, Biden è stato in grado di fare affidamento sulla forza dei suoi lunghi e profondi legami con la sua famiglia, sulla sua fede e sulla sua profonda amicizia con l’uomo dello Studio Ovale, Barack Obama.

Scrivendo con intensità e immediatezza, Joe Biden permette ai lettori di sentire l’urgenza di ogni momento, di vivere i giorni in cui si sentiva incapace di andare avanti così come i giorni in cui sentiva di non potersi permettere di smettere. Questo è un libro scritto non solo dal vicepresidente, ma da un padre, un nonno, un amico e un marito. Promise Me, Dad è una storia di come la famiglia e le amicizie ci sostengono e di come la speranza, lo scopo e l’azione possono guidarci attraverso il dolore della perdita personale alla luce di un nuovo futuro.

Promise me, Dad. Joe Biden. 2017 Pbs Flatiron Books, pp386

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