Michela Murgia incontra gli italiani di Francoforte

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Privato e politico, integrazione, multiculturalismo, identità, femminismo e ambiente. Un ricchissimo dibattito con la scrittrice di passaggio in Germania.

E’ una domenica di sole e Francoforte ospita un evento sentito: la maratona. Le strade sono sgombre e sportivi di ogni età corrono tra i colori generosi dell’autunno. Michela Murgia è in città e all’ultimo momento Italia Altrove Francofortee la Deutch-Italienische Vereinigungsono riusciti a organizzare un incontro. Si teme che la tempistica, la maratona e il sole diminuiranno l’affluenza, ma la sala è gremita. L’occasione è l’uscita recente, per Einaudi, della raccolta di saggi della Murgia Futuro Interiore Modera l’incontro Cinzia Sciuto, redattrice di Micromega che attualmente vive a Francoforte.

 

Il paradosso della letteratura: “il personale non esiste”

La prima domanda della Sciuto rompe il ghiaccio: “Michela, prima dell’incontro ho sbirciato sul tuo profilo Facebook. Nello spazio dedicato alle informazioni personali scrivi: IL PERSONALE NON ESISTE. Questa frase mi ha fatto pensare alla dicotomia privato-politico. Puoi dirci cosa significa per te?” “Significa che per me il personale non esiste”, risponde la Murgia. “Esiste l’intimo, quello che ci riguarda nel profondo. Ma l’idea di uno spazio privato – qualcosa di cui gli altri sono appunto «privati» – non mi appartiene. Quando ho scritto il mio primo libro, non fui io a contattare l’editore ma lui a cercare me. Tenevo un blog dove descrivevo la mia esperienza infernale in un call-center della Kirbi. Era un materiale privatissimo e non mi ero resa conto che potesse essere una storia collettiva. Mai mi sarei aspettata di pubblicare un libro e quando l’editore me lo chiese, risposi immediatamente di no: chi mi avrebbe protetto in tribunale? Ma mi hanno offerto questa protezione, così ho accettato. Tutto quello che ho scritto dopo mi ha aiutato a riflettere su questo rapporto: personale e collettivo. Pensiamo a La Metamorfosi di Kafka: non c’è nulla di più personale di un uomo incongruente col suo contesto, eppure La Metamorfosi è un’esperienza collettiva. Voi direte: quell’uomo poteva andare dallo psicanalista. E’ vero. Ma è anche vero che molti hanno evitato lo psicanalista proprio leggendo Kafka”.

Mi vengono in mente la dicotomia privato/politico in Nabokov e la funzione del romanzo come strumento di democrazia, su cui Azar Nafisi ha incentrato il suo celebre Leggere Lolita a Teheran. Ma non c’è tempo per pensare, perché Cinzia Sciuto ha già posto un’altra domanda…

Identità e appartenenza

“Nella tua raccolta di saggi mi ha colpito soprattutto il tema dell’identità. Ma forse questa parola non ti piace. Preferisci parlare di appartenenza?”

In Italia negli ultimi 20 anni”, risponde la Murgia, “da quando la Lega ha preso così tanti voti, il tema dell’identità si è posto nel discorso pubblico come un dato di fatto. Si sente spesso dire che bisogna «valorizzare le nostre eccellenze» contro quelle di altri. Ma è la premessa ad essere falsa, perché l’identità non esiste. La radice della parola «identità» è la stessa di «identico», dunque identità significa «chi è identico a me». Ma chi è identico a me? Nessuno al mio paese è identico a me. A 20 anni ho fatto cose che a 40 non rifarei. Dunque a quale «me» dovresti dunque essere identico? Eppure, a quelle persone io sento di «appartenere»”.

Mentre la Murgia parla, penso che sia la medicina che le tradizioni meditative orientali hanno fornito prove inconfutabili su come il concetto di identità – comunemente inteso – sia in realtà un fuscello esposto al vento. In effetti, ciò che chiamiamo identità è soggetto a parametri che lo stravolgono non nel corso di anni ma addirittura di giorni, ore, minuti. E penso anche alla condivisione del patrimonio genetico, che non ha nulla a che fare con l’appartenenza a culture, etnie, paesi differenti.

 

Integrazione e multiculturalismo

“Anche il termine «integrazione» inganna”, dice la Murgia. “Essere integri significa essere «interi». Quando chiedi a qualcuno di integrarsi, gli stai dicendo: io sono l’intero e tu sei in frantumi. Stessa matrice ha il termine «integralismo». Quando chiediamo a qualcuno di integrarsi e far parte dell’intero, gli chiediamo di spogliarsi di tutto ciò che lo vestiva fino a quel momento e di lasciare i vestiti fuori dalla porta. Chiedere alle persone di entrare nudi, ovvero di subordinare la propria cultura a quella di un altro, porterà l’Europa alla catastrofe. Nel mondo si stanno organizzando soluzioni diverse allo stare insieme. L’esempio più fulgido che ho visto è il Canada. Lì la parola d’ordine non è «multietnico» ma «multiculturalismo». Nella scuola che ho visitato ad esempio, si insegnano tutte le culture presenti. Il messaggio è questo: questa scuola è un puzzle di culture e tu sei una tessera, dunque senza di te noi non siamo «interi». Non che in Canada non abbiano problemi, ma il messaggio che si riceve è diverso”.

Mi piacerebbe chiedere alla Murgia come applicano questo approccio a strutture come i tribunali islamici, ma il discorso si è spostato sull’Italia, sulla Sardegna e sull’identità come etichetta e divisione delle persone in «categorie». “Per esempio”, dice la Murgia, “io sono sarda e per molte persone essere sardi corrisponde a vivere dentro una cartolina. Sono figlia di ristoratori e spesso arrivano persone che chiedono se il maialetto l’hai cotto nella buca. Esiste un mondo che pensa che le casalinghe sarde, per pura passione identitaria, facciano buchi per terra per cuocere i maialetti. Queste persone non conoscono la storia, per esempio il fatto che in passato si trattasse spesso di maialetti rubati da uomini, cotti all’aperto e sotto terra perché il fuoco non fosse visibile. Ma molti vogliono visitare lo stereotipo, mangiare un pezzo di te: è una mistificazione. Prendiamo la bottarga, ad esempio: il termine viene da una parola araba. E il pesto alla genovese? Si fa col pecorino sardo! Murgia poi, è un termine spagnolo che significa «salamoia per i formaggi». Insomma, tutto questo per dire che nessuno fa pace con l’idea che l’identità è qualcosa che cambia col tempo. I marcatori identitari cambiano e mi spiace quando non sappiamo accettarlo, perché perdiamo tutto ciò che i marcatori escludono. Quello che è avvenuto a Gorino, ad esempio, dovrebbe farci riflettere”.

 

“Concezione maschile del potere” e “via femminile al potere”: l’esperimento della democrazia partecipativa

Cinzia Sciuto pone una domanda che sposta il discorso su un tema ancora più controverso: “come donne conosciamo bene il vissuto di appartenere a una «categoria». Parliamo dunque della «concezione maschile del potere» e della «via femminile del potere». Cosa puoi dirci?”

“Qualche anno fa mi sono candidata alla presidenza della regione. Prevalentemente, con noi c’erano tre gruppi: femministe, pacifisti e indipendentisti. I primi due gruppi avevano un modo diverso di gestione del potere, che mi ha fatto riflettere. Mi sono chiesta: siamo in grado di avere una funzione pedagogica su come si esercita il potere? Perché il potere come lo conosciamo in Italia, l’ha definito meglio di tutti Andreotti: “il potere logora chi non ce l’ha”. Ed è vero. Lo scenario politico è governato da due energie: proteggere il potere e rubare il potere. È un conflitto sociale permanente e candidarsi per incarnare questo sistema non mi andava bene. Dunque ci siamo chiesti quale altro tipo di potere si potesse esercitare. Abbiamo trovato queste definizioni: “potere maschile” e “potere femminile”. Ma non c’entrano i sessi: il potere maschile può essere esercitato sia da uomini che da donne, stessa cosa quello femminile. Ma se quello maschile è imposto, quello femminile lo chiamiamo «processo partecipativo». Cosa intendo? Che nessuna decisione amministrativa venga essere presa senza coinvolgere la popolazione. Perché se la decisione la prendi prima e la gente si vede arrivare la TAV, i progetti, l’esproprio, il paesaggio stravolto… è chiaro che sorgono conflitti. Mi sono anche resa conto che non è vero che alla gente non interessa la politica. Dipende dalla politica: alla gente non interessa la politica che non ti da la parola ma ti usa. Avete notato che i giornali in Italia non li legge più nessuno? Una volta le decisioni politiche si prendevano nei bar, ma oggi dove va la gente a parlare di politica? Ve lo dico io: ai festival letterari. Arrivano persone che fanno domande che non c’entrano nulla. Si scusano e dicono: non ho nessun altro contesto dove posso fare questa domanda. Dunque il ruolo degli scrittori, oggi più che mai, non è dare risposte ma fornire uno spazio per queste domande”.

Femminismo, femminicidio, maschilismo dell’editoria italiana

A questo punto Cinzia Sciuto intavola sapientemente un gioco di ruolo: “nella nostra società è evidente la presenza di una forte cultura maschilista, eppure ogni volta che si pone la questione ci sentiamo rispondere che non è vero, che ormai le donne sono emancipate. Allora ti propongo un gioco: io faccio il maschilista di turno che controbatte alle tue affermazioni. Tu devi rispondermi, svelando la mistificazione e dimostrandomi che hai ragione”. La platea ride. Il botta e risposta è serrato e tocca gli argomenti più disparati, in una versione coltissima dello scontro Clinton-Trump (sebbene, ci tengono a puntualizzarlo, nel caso americano la «concezione maschile del potere» sia già decisa: bisogna scegliere soltanto se porterà i pantaloni o i collant). Vi riporto qui un assaggio del finto battibecco. Qui la Sciuto impersona l’organizzatore di un festival letterario. Tema: il maschilismo dell’editoria italiana.

Prendi la brochure del festival. Su venti uomini ci sono tre donne e tu che sei l’organizzatore nemmeno lo noti. Sai cosa significa? Che nemmeno ti accorgi che stai collaborando a mantenere lo status quo di una cultura su cui invece vorresti influire. Le donne, fateci caso, sono coinvolte come moderatrici oppure riguardo ad argomenti considerati femminili. Nessuno dice «tu vali meno», ma tutto ciò che orienta le scelte è basato su questo assioma. Ma la cosa grave è che nemmeno lo notiamo”.

“Converrai con me che non è il genere che conta, ma le idee. Cosa facciamo, le quote rosa degli scrittori?”

Così mi costringi a pensare che le idee le abbiano soltanto gli uomini. Devo pensare che più della metà del mondo non abbia autorevolezza?”

“Ma su questo argomento, donne autorevoli non ce ne sono. Ho fatto lo sforzo di cercarle…”

Ah, quindi autorevoli si nasce? Più volte fai parlare una persona, più cresce la sua autorevolezza. Se i loro nomi non si affermano, il loro pensiero non si diffonde. Perché l’autorevolezza di una persona non si costruisce a 25 anni, ma a 5 anni! Dipende tutto da come una bambina viene educata dalla società. Faccio un esempio di come il problema sia invisibile e radicato. Io vivo in un mondo maschilista: l’editoria è maschilista, fatta di uomini che hanno tutti 60 anni quando va bene. Anche il mio editore, persona meravigliosa, mi disse: «sei troppo brava perché io ti chiami scrittrice»”. (Disappunto della platea) “Ma no, ma no… non prendetevela col mio editore! Prendetevela con Elsa Morante invece, che chiedeva di essere chiamata «scrittore» perché la parola «scrittrice» designava qualcosa di valore minore. Vedete, ai festival letterari siamo sempre due o tre donne, dunque io sono una di quelle rare persone che questo spazio per parlare ce l’ha. Ne consegue che sono io che devo dire queste cose. E la lingua che utilizziamo per parlarne – sindaca e non sindaco, ad esempio – è molto importante. Perché la parola «sindaco» o «scrittore» applicata a una donna significa: stai abusivamente occupando il posto di un altro, posto che presto tornerà al suo legittimo proprietario”.

“Parliamo di un tasto dolente”, dice la Sciuto. “Il femminicidio”.

“Il femminicidio è una questione poco capita. Femminicidio non è solo quando una donna muore fisicamente. Uccidere socialmente una persona tramite mancanza di lavoro, stipendi diversi, impossibilità di raggiungere posizioni prestigiose nonostante la preparazione e le competenze… questo è femminicidio. Insomma, come mai nelle università le ragazze eccellono e poi ci ritroviamo soltanto uomini nei posti di comando? Non è una contraddizione?”

Qui la mia mente galoppa. Cinzia Sciuto sta dando spazio al pubblico e una dopo l’altra le persone intervengono per criticare, approvare, discutere, chiedere. E’ una platea partecipe e anche io voglio fare un intervento:

“Signora Murgia, vorrei fare la persona che va ai festival letterari per porre domande che non c’entrano, perché non posso farle in nessun altro contesto”. La platea ride. “Vorrei portarle umilmente un’istanza perché credo che il femminismo stia dimenticando un aspetto senza il quale tutti questi discorsi perdono di valore. Parto da un esempio. Un paio di anni fa la Gran Bretagna ha emesso una legge sulla seconda madre biologica e in Italia, la Chiesa ha gridato allo scandalo. Andando a guardare in dettaglio, scopriamo che i britannici hanno reso legale la modifica di una quantità infinitesimale di DNA mitocondriale. E’ l’amarissima ammissione di consapevolezza che una parte significativa della popolazione femminile soffre di disfunzione mitocondriale a causa dell’inquinamento che permea tutti gli aspetti della società. Vorrei dunque che riflettessimo sul termine femminicidio in chiave più ampia. Il DNA mitocondriale si trasmette per via matrilineare, dunque i figli di questa società sono per lo più figli malati. Quanti di voi conoscono donne affette da asma, celiachia, intolleranza alimentare, fibromialgia, allergie? Quanti hanno bambini con problematiche simili? Chiediamo più lavoro per le donne, ma in breve tempo non potremo più lavorare perché siamo malate e intossicate. Già accade, nel silenzio dello Stato. E accade alle donne per prime ma se le donne sono malate, che futuro ha la società? La parità è poi un concetto delicato, perché non siamo pari: l’organismo femminile è un equilibrio complesso di cui anche la medicina cosiddetta «di genere» ancora non tiene conto. Che senso ha oggi pensare il femminismo distaccato dalla questione ambientale? Che senso ha la battaglia contro il tumore al seno ad esempio, senza capire da cosa è generato? Che senso discutere sull’utero in affitto se non discutiamo la salute dell’embrione?”

Dalla platea si alza un applauso e diverse persone si avvicinano per dirmi: “anche mia figlia, anche mia moglie, anche su Report hanno detto che…” Forse i tempi sono pronti per un cambio di prospettiva? La Murgia è pallida, serissima, gentile. Mi risponde: “Ti ringrazio. Terrò presente questa istanza in futuro”.

 

per BookAvenue, Silvia Belcastro


 

ndr. L’ultimo libro di Michela Murgia è, come i precedenti, pubblicato da Einaudi.


Chi non ha risposte si salverà forse con una domanda, se saprà sceglierla bene. Sapremmo dire chi siamo senza evocare sangue e suolo? La democrazia avrà spazio per la bellezza? Si può essere potenti insieme, anziché uno contro l’altro? Futuro anteriore è un volume in cui Michela Murgia riflette sulla sua generazione, quella degli anni Settanta. Lei, nata nel settantadue, appartiene a quella generazione di passaggio tra due grandi cambiamenti storici, uno relativo alla sfera sociale, l’altro invece che riguarda il mondo della tecnologia.

Si tratta di una generazione di mezzo, che non ha avuto modo di vivere pienamente nessuno dei due eventi. Quella dei nati negli anni Settanta è una generazione che è stata testimone degli eventi, li ha vissuti indirettamente o comunque in modo marginale. Figli dei babyboomers e genitori dei nativi digitali, faticano a trovare una loro dimensione nel percorso compiuto dalla storia. Essi oggi hanno quarant’anni. Hanno percepito la rivoluzione che li ha preceduti e hanno osservato quella che è venuta dopo di loro, ma non hanno vissuto nessuno dei due eventi da protagonisti. Ora vivono un presente che li vede fragili, in cui non si riconoscono pienamente, eppure non dimenticano la necessità di trovare il loro spazio.

Ma, se non vi fosse stata questa netta percezione di essere arrivati troppo presto, oppure troppo tardi, quale sarebbe stato il cambiamento che avrebbe portato generazione dei nati durante gli anni Settanta? Quale sarebbe stato il terreno da loro scelto, per compiere la loro rivoluzione? Come avrebbero voluto il mondo, come lo immaginavano? Cosa avrebbero voluto cambiare in meglio,se ne avessero avuto la possibilità? A queste domande prova a rispondere Michela Murgia con Futuro anteriore.

 

pp.96, 12,00 euro

*La foto di Michela Murgia è tratta dalla pagina FB di Italia-Altrove

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