Mamma e Babbo ai tempi della rivoluzione

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foto autoreL’autrice.
Nafisi è figlia di Ahmad Nafisi, ex sindaco di Tehran, e Nezhat Nafisi, prima donna ad essere eletta al parlamento iraniano. Nasce in Iran nel dicembre del 1955. All’età di 13 anni viene mandata dai suoi genitori in Inghilterra per continuare gli studi. Porta a compimento i suoi studi superiori e universitari negli Stati Uniti, dove si laurea in letteratura inglese ed americana presso la University of Oklahoma. Nafisi ritorna in Iran nel 1979 divenendo Professoressa di Letteratuta Inglese presso l’Università Allameh Tabatabai di Tehran; incarico che terrà per 18 anni, eccetto che per il periodo 1981-1987, nel quale sarà espulsa per non aver rispettato le norme vigenti sull’abbigliamento. Nafisi attualmente è un Visiting Fellow e docente presso la School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University.

Il Libro.
Azar Nafisi, quando era un professore di letteratura occidentale a Teheran negli anni 1980 e anni’90, raccontava in forma anonima ai giornalisti stranieri in visita nel suo Paese e in cerca di orientamento, quello che accadeva in Iran. Nel 1997 si è stabilita negli Stati Uniti e ha scoperto la sua voce pubblica, trasformando l’eco dei suoi pensieri nello strepitoso romanzo che l’ha fatta conoscere al mondo, “Leggere Lolita a Teheran”. Il suo ricordo, si è trasformato in pagina scritta di storie personali con quelle dei suoi ex studenti, utilizzando come un banco, le loro esperienze di in un gruppo di lettura (a casa sua) incentrato su alcuni scrittori come Nabokov e Fitzgerald vietati e banditi dal regime dell’epoca (e, per inteso, lo sono ancora oggi). “Leggere Lolita” divenne un best seller internazionale facendo di lei una scrittrice famosa e amata da lettori di tutto il mondo.

Ora ha scritto un secondo ricordo, molto più intimo rispetto al primo, una disserzione della sua (spesso) difficile vita familiare, raccontata contro la drammatica turbolenza della recente storia iraniana. L’idea del libro nasce da un elenco che ha iniziato con la compilazione nel suo diario dopo la rivoluzione islamica 1979, dal titolo “THINGS I’VE BEEN SILENT ABOUT (Cose su cui ho fatto silenzio)” Esso si basa su altre fonti, compresi i diari di suo padre, un ex sindaco di Teheran; ritraggono momenti e fotografie di famiglia, alcune delle quali riferite da sua madre e che figurano nel libro. La maggior parte del tempo si basa sulla memoria, un potente strumento che può, però, falsare così come illuminare.

Nafisi utilizza le nuove memorie con innumerevoli storie raccolte quasi in presa diretta dalla sua vita precedente: la sua educazione in una prominente famiglia; la sua istruzione in Svizzera, Inghilterra e Stati Uniti; il suo impulsivo primo matrimonio con un uomo non ha amato (per motivi che non spiega completamente); il suo ritorno in Iran alla fine degli anni 1970, come ha vissuto la rivoluzione islamica è il suo successivo svolgimento; la sua carriera di insegnante nel quadro della regola clericale; e il suo secondo matrimonio e i suoi due figli.

Parla con molta sincerità e severità: fosse viva sua madre avrebbe avuto da dire che i panni sporchi non vanno lavati all’aperto. Ma dopotutto, i suoi genitori sono morti e ha trovato se stessa determinata a cancellare “la fiction con cui i miei genitori mi hanno cresciuta, dice, – fiction su se stessi così come gli altri.” Il ricordo, scrive, è “una risposta al mio censore interiore e inquisitore.” La rivoluzione, che ha distrutto le certezze della sua famiglia e la vita, ha reso il ricordo più critico. “Se il presente è fragile e volubile, il passato potrebbe diventare un surrogato”, scrive.

Un narratore dotato di padronanza della letteratura occidentale, Nafisi sa usare la lingua per sedurre. Svela i segreti della sua famiglia per fare i conti con i segni distintivi della sua rabbia, dell’umiliazione e dell’inganno. “La maggior parte degli uomini barano sulle loro mogli di avere segreti”, essa scrive in apertura del libro, con un cenno del capo a Tolstoj. “Mio padre truffò mia madre di avere una vita felice”.

Ma l’obiettivo principale della vendetta letteraria della Nafisi è proprio sua madre, che mentì a se stessa come come una intricata miniatura persiana. Nezhat Nafisi ambiva a essere un medico e finì ingannata perché non le fu concesso di terminare la sua istruzione. Ha deluso la memoria di suo marito morto prima, ma da vivo non gli aveva reso molto affetto costringendolo in una rete di belle menzogne. Anche quando divenne una delle prime donne membri del Parlamento iraniano, nel 1963, non fu sufficiente. Decise che il suo matrimonio con Ahmad Nafisi era stato un errore, e lo spinse lontano e nelle braccia di altre donne e, infine, in un divorzio.
Di sua madre ricorda anche il giorni in cui la bandì di casa per un certo periodo per aver inscenato un falso suicidio solo per elemosinare cure e affetto. O di come era solita leggere i suoi diari o ascoltava le conversazioni telefoniche. In sostanza era una donna dura che non voleva rivali.
Anche quando Azar Nafisi partì in esilio negli Stati Uniti e disse addio alla madre essa voltò le spalle dal suo bacio.
Con Ahamad suo padre, e’ tuttavia indulgente: Nafisi parla di uno sviluppo di “linguaggio segreto” di comunicare i loro sentimenti e ingannare sua madre. Egli tradusse nel suo persiano classici come Ferdowsi dell’epica “Shahnameh”, il Libro dei Re, e, più tardi, classici occidentali. Gettato in prigione come sindaco di Teheran nel 1963 con false accuse, usò il tempo di imparare nuove lingue, a dipingere, e scrivere tre libri per bambini e 1.500 pagine di diari. Su un altro livello, per la scrittrice, il ricordo è un tentativo di rendere omaggio a suo padre, portando la propria vita all’aperto.

Involontariamente, forse, l’aspetto più doloroso del ricordo della Nafisi è un auto-rivelazione. Lei descrive di come a soli 6 anni fu molestata da un amico di famiglia, un uomo che è stato considerato santo, e la vergogna che si sente dopo. Cosa sulla quale ha taciuto tutto questo tempo e con cui fa finalmente i conti.

Nafisi soffrì profondamente per aver perso suo padre, quando lei e la sua famiglia si trasferirono negli Stati Uniti, ma non stabilì nessun contatto con lui e nemmeno per mandargli una copia di “Leggere Lolita.” Alla fine del libro, Nafisi resta inquieta, inesorabilmente dura con se stessa rimproverandosi di non essere una figlia migliore, e per non essere tornata in Iran prima della morte dei suoi genitori, anche se sarebbe stato pericoloso per lei. Alla fine, è grata a loro, non per aver portato la sua felicità, ma per il suo armamento per la battaglia della vita. “È stato solo dopo la loro morte”, scrive, “che mi mi sono resa conto che ciascuno di loro a modo loro mi avevano dato un piccolo testimone morale che salvaguarda la memoria ed è una costante resistenza contro la tirannia del tempo e degli uomini”.

Posso dire che “Cose su cui ho fatto silenzio” mi ha trasmesso una più ampia comprensione dell’Iran se non altro da punto di vista interno di una intellettuale. Ma non mi ha dato una più ampia comprensione della Nafisi. Della scrittrice sono disaccordo circa la forma della politica iraniana. Lei è stata un feroce oppositore della Repubblica islamica essendo stata testimone della sua nascita con la rivoluzione khoeiminista, ma fu aspra nella sua critica del presidente Mohammad Khatami e il suo impegno ad aprire il sistema politico. Mi ha sorpreso di più il suo assolutismo intellettuale e inedita furia che la sostanza delle sue opinioni politiche. Soprattutto a vedere la piega che ha preso l’attuale presidente Ahmadinejad.

per Bookavenue, Michele Genchi


copertinaAzar Nafisi
Things i’ve been silent about. Memories
Random house

trad. italiana per Adelphi

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