Armi di distruzione di massa (vers.2)

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Bob Woodward è una leggenda del giornalismo americano; ha vinto pressoché ogni premio giornalistico statunitense, a cominciare dal Pulitzer, assegnato a lui e a Carl Bernstein per aver rivelato i retroscena dello scandalo Watergate che portò alle dimissioni il Presidente Richard Nixon. Ironia della sorte, perchè l’economia e gli asset aziendali in USA non guardano in faccia nessuno, a 65 anni Bob Woodward ha dovuto accettare, come 99 altri suoi colleghi del Washington Post coinvolti in una purga di bilancio aziendale, il pensionamento o, come si chiama nel linguaggio brutale delle aziende americane, il “buy out”, l’acquisto e la risoluzione del suo contratto di lavoro. Tuttavia il suo rapporto di lavoro al Post era da diverso tempo “simbolico”: guadagna molti milioni con i suoi libri e aveva da tempo conservato per puro affetto la sua scrivania al giornale per la modica cifra di diecimiladollari l’anno.
La sua uscita dal Washington Post è una porta che si chiude su un’era del giornalismo, che lui e Bernstein, complice il clima arroventato dei primi anni Settanta generarono il mito del “quarto potere”. La tradizione del giornalismo investigativo non è finita, per fortuna, con la coppia dei due “ragazzi irresistibili”, i trentenni che nel 1973 e ’74 ascoltarono la “Gola Profonda” dell’ Fbi e seguirono le briciole che lui faceva cadere fin dentro lo Studio Ovale di Richard Nixon.

Il libro.
Bob Woodward ha dedicato alcuni libri alla Casa Bianca. Nel primo libro di questa serie, “Bush alla guerra„ (2002), aveva descritto il presidente in termini come un uomo forte, risoluto, persino capo immaginario. Aveva già correto la sua opinione in “State of Denial – condizione di smentita„ (2006), in cui il presidente è emerso come capo passivo, testardo ed intellettuale incuriouso, dotato di certezze quasi religiose con qualche mal di pancia. In questo raggiunge una conclusione maldicente circa la presidenza di George W. Bush. “Un presidente deve potere ottenere una valutazione trasparente e imparziale della guerra,„ lui scrive. “Un presidente che sarà ricordato per l’impazienza, le blasters – bravate dice duramente- e l’incertezza personale sconvolgente di molte delle sue decisioni. Peggio, è stato troppo spesso impulsivo e ha disatteso le aspettative del mondo per la maggior parte della sua presidenza, con decisioni prese di “pancia” con reazioni in ritardo alle realtà e ai consigli forniti e che sono andati in senso contrario rispetto al suo intestino.

Dopo l’ordine di invasione dell’Irak, Woodward accende rabbioso, il presidente ha passato i tre anni successivi a smentire di tutto, a partire dalla questione del pericoloso arsenale di armi di distruzione di massa che ha costretto gli USA a scendere in guerra ed allora ha delegato una revisione di strategia al suo consigliere della sicurezza nazionale. Bush è sempre stato intollerante dei confronti e del dibattito approfondito e ha sempre prefrito far parlare i suoi collaboratori esponendoli allo scontro con i media e la società civile. E’ noto che non ha mai avuto davvero “polso” in questi anni di guerra e ha sempre avuto una posizione dispari anche nei confronti della sua stessa amministazione.
Il dibattito, come si legge dalle cronache d’oltreoceano, infuria. E l’opinione corrente di cosa saranno gli Stati Uniti del dopo Bush riempie le pagine dei quotidiani e dei newsweeks. Woodward ha avuto accesso di prima mano alle informazioni interrogando i vari protagonisti della scena politica statunitense Da Condollezza Rice all’Advisor della sicurezza nazionale Sthepen Hadley e leader militari e membri del gruppo di studio dell’Irak; per questo le sue analisi sono incisive e assai severe.
Molto della “guerra dentro„ ratifica semplicemente l’immagine che già è emersa dagli articoli dei giornali e dalle dozzine dei libri dei giornalisti e dagli ex membri della gestione. È un’immagine di una gestione spaccata dai conflitti interni (fra il Pentagono e il Dipartimento di Stato, fra i civili del Dipartimento della Difesa ed i militari in uniforme, fra i neoconservatori della linea dura ed i realisti più pragmatici), una gestione in cui il consiglio degli esperti è stato frequentemente ignorato o allontanato, dove la politica di visione globale e’ stata spesso disattesa a favore della politica elettorale.
Woodward ci dice che la Rice non ha mai sottovalutato i reclami circa i rapporti militari eccessivamente ottimistici al sig. Bush per via dell’ “ottimismo quasi esigente del presidente„ e perché ha sostenuto “che come ministro, non stava a lei criticare la segreteria della difesa di Donald il H. Rumsfeld o i comandanti militari.
In altro capitolo, Woodward ci dice che Stephen Hadley, (il quale dopo l’annuncio dell’uscita del libro si è affrettato a
dichiarare che molte delle cose scritte sono false e prive di fondamento), ha messo in carica il dispositivo di segretezza sulle questioni della guerra fin dal 2006 in modo da non danneggiare i repubblicani in corsa per la successione. Quindi i media non hanno ricevuto accesso completo alle informazioni per comunicarle al Paese.
Diverse volte, Woodward contrappone l’ ottimistismo di Bush dall’immagine che i suoi consiglieri stanno dando al pubblico americano con le loro preoccupazioni circa il corso della guerra. E diverse volte, descrive le conclusioni dei servizi segreti che indicano una crisi d’approfondimento nell’Irak e una risposta tremante dalla Casa Bianca liberandosi dalle notizie difettose, posponendo le decisioni o semplicemente derubricandole su altri studi. (Una per tutte: la gestione terribile di come è stata trattata l’emergenza dell’uragano Katrina, fino a che la CNN non ha sbattuto in faccia la verità sulla tragedia che incombeva a sud del Paese).
Dopo tutto, l’amministrazione Bush stava ricevendo i rapporti circa le difficoltà crescenti in Irak da metà del 2003 ed il pubblico americano, è stato informato soltanto dai rapporti di notizie sufficienti, però, per capire che le circostanze stavano disfacendo l’azione militare con una velocità allarmante.
Il presidente è sembrato spesso resistente dall’ammettere i propri sbagli e le proprie responsabilità. Tuttavia, Woodward ha avuto modo di incontrare Bush: scrive che ha ammesso che non ha potuto, pur sapendolo, sostituire parte del personale del suo ufficio compreso Rumsfield fino alle elezioni del 2006.
Gli alleati repubblicani avevano implorato la Casa Bianca di smettere di parlare “della conquista„ nell’Irak, ma quando Hadley ha tolto la parola “vittoria„ da un discorso, il presidente ha insistito che fosse reinserita. E quando Woodward gli ha chiesto se si rammaricasse di non aver introdotto più truppe all’inizio, il presidente ha risposto che la storia dovrà giudicarlo, aggiungendo, “non ho speso molto tempo analizzare se più truppe nel 2003„ avrebbero cambiato la situazione”.
Bush, che è descritto di come stia invecchiando, con capelli più grigi e “una pancia notevole„ – appare difensivo e confuso nei suoi colloqui con il sig. Woodward, e sembra che le sue risposte siano dettate più dal pilota automatico che dal ragionamento. Traspare che i suoi consiglieri, come emergono in questo libro, sono le figure più energiche nella filiera delle decisioni della gestione di una guerra che è costata più di 4.100 vite americane, ha lasciato 30.000 feriti seriamente ed i diecimila morti di Iracheni.
La signora Rice dice: “Ci sono molte cose che, se potessi tornare indietro, farei diversamente. Ma quello che non farei diversamente è, che noi dovremo liberare l’Irak. Lo ripeterei mille volte.„
Se può bastare più di così…


per Bookavenue, Michele Genchi


copertinaBob Woodward,
The war within
Simon & Schuster Publishing Group

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