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La nobile arte di prendersi a cazzotti. Joyce Carol Oates, Sulla boxe

   Tempo di lettura: 10 minuti

Perché se uno ha visto cinquecento incontri di boxe ha visto cinquecento incontri di boxe

Diciamolo: la boxe è stata un baluardo degli uomini inteso sia come sport esclusivo di genere, nel senso letterale della parola di esclusione dell’altro, che come “corporazione” in difesa della sua individualità per un sacco di tempo fino all’arrivo di Joyce Carol Oates: una creatura forse troppo esile ma troppo piena di talento che non ha esitato a scavare tra i cazzotti dei campioni che hanno fatto la storia di questo sport e dato visibilità a quest’arte.

 

Joyce Carol Oates, naturalmente è molte altre cose e rischio di ripetermi essendomi già occupato di Lei [1]per altri libri; non solo è uno dei più grandi romanzieri americani, è anche un’osservatrice esperta della lotta più crudele che ci sia tra gli individui. I lettori possono ancora leggere “Sulla Boxe” perché pubblicato dalla meritoria iniziativa della 66thand2th, casa editrice nata solo cinque anni fa, con all’attivo uno splendido catalogo di storie di sport (e non solo). La traduzione degna di questo nome è di Leonardo Marcello Pignataro. Questa nuova traduzione è corroborata dall’aggiunta di altri saggi che Carol Oates ha scritto in seguito all’uscita dell’edizione italiana che segnalo di seguito. Uno di questi, che vale da solo il libro, è quello dedicato a Mike Tyson.

Il libro, come detto, non è nuovo sia nella lingua nativa sia la sua traduzione nella nostra. La prima in italiano dell’ottantotto, si deve al lavoro di inseminazione culturale di “quelli” dell’edizioni E/O – con l’ottima penna di Anna Rosa Mielo – . Meriterebbero un premio solo per aver tradotto, tra l’altri, capolavori come “Il pesce gatto” di Jerome Charin, ma sparerei contro il loro editore Sandro Ferri per averlo dimenticato, privando molte altre (e nuove) generazioni di lettori il piacere di averlo sugli scaffali di casa. Sono certo che mi derubricherebbero il reato. Mi si scusi la disgressione.

Come può accadere solo di rado, Joyce Carol Oates ha conosciuto questo sport non per caso; suo padre amava e seguiva il mondo dei guantoni e nella loro casa di NY giravano giornali e riviste di boxe. Quelle vecchie riviste con le loro grafiche demodé, a vederle oggi, con le fotografie in bianco e nero, sono stati i rudimenti di allora che catturarono l’attenzione di una curiosa bambina dagli occhi scuri.

Nel libro, la grande autrice scrive: “Nei primi anni Cinquanta quando mio padre mi portò ad un torneo di boxe a Buffalo, chiamato Golden Gloves , gli chiesi perché i ragazzi volevano combattere l’un l’altro e perchè erano disposti a farsi del male“. Mio padre rispose che “I pugili non sentono dolore come lo sentiamo noi“. Una spiegazione sufficiente per cambiare il modo di guardare la boxe di Carol Oates. Più avanti aggiunge: “Raramente qualcuno inizia un nuovo interesse come questo sport durante l’infanzia – ed è del tutto evidente che nasce da una costola di mio padre – ma non per questo penso alla boxe come simbolo di qualcosa che vada oltre me stessa. Valuto l’idea che la vita sia una metafora della boxe“.

Pur essendo piccola, la grande autrice americana era capace di osservare con un certo distacco il ritmo di quel rito di lotta tra uomini attratta, invece, dalla bellezza di quella strana violenza che ha fatto battere più velocemente il cuore di molte generazioni di appassionati.

Molte cose sono accadute da allora. La scrittrice, più volte vicina al Nobel della letteratura, è stata molto pubblicata e molto lodata per la sua opera e non ha mai perso il suo fascino per quest’arte di virilità maschile continuando ad andare agli incontri e a scriverne; “Sulla Boxe ” celebra il genere. Uno sport per gli uomini, uno sport che è sugli uomini, uno sport che è degli uomini.

E siccome apparire macisti non sembra essere più politicamente corretto, è pure una celebrazione dell’arte perduta della mascolinità e, aggiunge, “…anche se il pugilato femminile ora abbellisce in qualche modo il “quadrato” con la grazia che è propria delle donne, la boxe è ancora, nel bene e nel male, cosa di uomini “.

Ancora. “Un’arte che celebra la fisicità“, scrive malinconicamente, ” perché drammatizza i limiti, a volte tragici e struggenti che, come la vita, ha i suoi aspetti inquietanti“. “Non ho nessuna difficoltà a giustificare la boxe come uno sport“, scrive la Oates, “perché non ho mai pensato a questa attività come ad uno sport. Non c’è nulla di fondamentalmente ludico in essa; nulla che sembra appartenere alla definizione di una attività sportiva in quanto tale” I momenti di maggiore intensità di un qualsiasi match, sembrano contenere in modo completo e potente l’immagine della vita, la sua bellezza, la sua vulnerabilità, la sua disperazione. La vita è la somma di queste cose; l’incalcolabile spesso autodistruttivo coraggio che dà alla boxe il paradigma delle vite, sono una cosa difficilmente declinabile come una semplice gara.

La boxe è solo come la boxe. Alcune altre discipline possono essere simili, ma nessun altro sport è uguale alla boxe. Joyce Carol Oates parla con grande chiarezza e competenza degli aspetti complessi che ruotano intorno al ring.

La boxe è uno sport che è il più tragico di tutti gli sport perché consuma le facce molto più velocemente più di ogni altra attività umana. “Ogni incontro di boxe è una storia“, scrive, “un dramma unico e altamente condensato, senza parole”. Perché un incontro di boxe è una storia di silenzi e fiatoni, anche se i commentatori a bordo ring danno con le loro voci, una narrazione di quello che avviene sopra le loro teste. Se non fosse per la brutalità con cui si consumano le prestazioni degli atleti, si potrebbe parlare di danza. Quello che appare, al netto dei colpi che vanno a segno devastando l’area dell’impatto, la boxe può, secondo l’autrice, essere paragonata al balletto o alla danza classica. A proposito di balletti: la copertina di questa nuova edizione prende spunto dal saggio dedicato all’incontro epico tra Joe Louis contro Max Schmeling nel 1936.

Carol Oates ammette che quello che accade dentro il perimetro delle corde sembra essere meno spaventoso di quello che appare man mano che i round si susseguono. Meno di una guerra, dice, per quanto, l’immagine che un’incontro tra pugili restituisce è assai simile ad un conflitto o un atto di aggressione verso chi non se lo aspetta. Al sottoscritto questa frase ricorda la furia di Mike Tyson con cui morse l’orecchio, staccandone un pezzo, di Holyfield a Las Vegas. Chi l’ha dimenticato? Niente a che vedere con la strategia di guerra degna di Sun Tzu in Muhammad Alì a Kinshasa capace di subire e assorbire per quasi tutta la gara i colpi devastanti di Foreman fino a farlo crollare dalla stanchezza. Era l’ottavo round e Ali’ rivinse la cintura dei pesi massimi per KO con una serie spaventosa di jab e uppercut con cui gliene suonò di santa ragione per poi finirlo con un memorabile “gancio” alla mascella. Una pagina di storia. (ndr. il video del match è in fondo alla pagina)

Joyce Carol Oates, lo celebra come il più grande di tutti pur raccontando le storie di chi questo sport l’ha scritto con la propria di atleta e d’individuo. E, proprio perché donna, strappa il velo degli equivoci che mascherano questo sport. Il che ci riporta al paradosso della boxe: il suo fascino ossessivo che molti, me compreso, trovano in essa; non solo uno spettacolo che coinvolge imprese grandiose di abilità fisica e memorabili serate per quello che hanno rappresentato, ma un’esperienza emotiva che è quasi impossibile trasmettere a parole; una forma d’arte senza alcuna analogia naturale nelle arti. Un atto che compie un gesto primitivo come lo sono la nascita, la morte, e/o come l’amore erotico che quasi ci costringe al riconoscimento di una esperienza tra le più profonde della nostra vita.

E, badate bene: non sono solo eventi fisici che crediamo siano: in fondo si tratta di due atleti che si prendono a cazzotti per una decina di round in un quadrato circondato da delle corde, ma anche ad un incontro essenzialmente spirituale.
Questa è la boxe.

 

Per BookAvenue, Michele Genchi

 


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