Il libro è ingannevolmente piccolo, di 170 pagine, fatto di racconti per lo più ambientati nel New Jersey, (come nei precedenti romanzi) dove figura un giovane domenicano di nome Yunior(come sopra: si, è lo stesso immigrato dei romanzi già usciti). E' un mondo di uomini ossessionati dal sesso e di donne sotto pressione che sognano un porto sicuro. E' l'eterno paradigma uomo/donna: “lì” l'uomo finisce quello che per la donna comincia. Ma è il linguaggio la chiave di tutto; Diaz sa essere un minimalista che riduce la sua scrittura all'essenziale e, pure, un massimalista capace di cambiare registro, creando un minestrone lessicale fatto di frasi caraibiche, gergo dei neri americani nuniti del proprio slang da strada, a un delizioso modo letterario di colloquiare.
I corpi sono i protagonisti di questa raccolta. In “Otravida, otravez”, un racconto di sincera bellezza letteraria sulla relazione di un'addetta alla lavanderia di un ospedale e un domenicano sposato, tutto quel che riguarda le vite dei personaggi - dei loro umili lavori - la loro paura della stasi (intesa come ostaggi del tempo), la loro capacità di tenerezza, è inscritta nella loro pelle.
Ed è roba, questa, non solo di quasi tutti i personaggi del libro, ma di Diaz in generale: sono tutti alle prese con il tempo. I loro ricordi dei coniugi, dei figli o dei fratelli rimasti nella Repubblica Domenicana svaniscono ogni anno che passa. E nel New Jersey si cresce rapidamente, troppo in fretta. Diaz ha questa ironia, questa sua capacità di far ridere, ma anche di farti sussultare di dolore, proiettando i suoi raggi X su mondi troppo spesso ignorati dai mezzi di informazione.
Il libro è tanto bello quanto la "breve vita..." peccato che, in libreria, sia passato quasi del tutto inosservato per un autore che ha vinto il Pulitzer. Ma non è una novità. La qualità letteraria sembra semplicemente non importare più a nessuno.
Vènghino Signori, vènghino.
per BookAvenue, Michele Genchi