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Podcast. Gil Scott Heron. La caduta di un Blackness

   Tempo di lettura: 6 minuti

I suoi messaggi contro la guerra, contro l’uso delle armi, contro la politica antisociale di un attore riconvertito presidente (Reagan in B movie) e sulle discriminazioni razziali dell’America hanno le ambizioni di essere universali e di parlare a tutti. Tale è la sua opera: l’unione del meglio di tutta la musica nera dal jazz, al blues, al soul; per approdare al funk e alla dance. Musiche insieme semplici e raffinate, fuse in un bollente calderone dove a dominare sono i toni e i colori “neri”. E’ il trionfo della blackness; i neri d’America sentivano di dover urlare di più per farsi sentire in un mondo che di loro non ne voleva sapere. Ecco perché Gil Scott-Heron e il suo The revolution will not be televised piacciono molto ai rappers e agli hip hoppers di ultima generazione e il suo nome viene sempre citato tra gli ispiratori. I suoi messaggi sono stati per tutti gli anni Settanta quelli che hanno raccontato meglio la vita del ghetto e della popolazione nera.

In Winter in America (), Scott-Heron e il suo sodale di lungo corso Brian Jackson, costruiscono un LP fatto di intense melodie, tutto giocato sulle loro voci in contrappunto a soffici tastiere, ora acustiche ora elettriche. Sull’atmosfera generale del disco, vagamente dolente e pensosa, si inserisce The bottle, una melodia fantastica su un ritmo lanciato alle stelle, che ricorda certo acid jazz di oggi; anche per la presenza del flauto, che vaga lungo tutto il brano inseguendo il cantato. Per Heron la musica nera è sempre protesta, rabbia, flusso di coscienza o di speranza. Questo disco lascia un segno immediato, già dal titolo. L’inverno in America è una metafora del freddo che si prova a guardare con occhio critico la storia ed il passato di una nazione che ha perso l’anima e in cui la costituzione è solo un nobile pezzo di carta e dove la democrazia mendica in un angolo… Il sodalizio con Brian Jackson è profondo ed in più si aggiunge la presenza di una band alle spalle dei due che conferisce a tutti i brani uno spessore ed un sapore unici. Gli ingredienti sono quelli di sempre: dalla pena di Gil escono testi critici, polemici e a volte dolenti sulla condizione dei neri e dell’America mentre Jackson provvede un impasto di funk, soul e gospel unico. La coralità del disco è anche nelle melodie spesso cantata a due voci dove a Heron si aggiunge un secondo vocalist. Ricorda vagamente alcune cose del Miles Davis elettrico. Una malinconica jazz ballad, Alluswe (), chiude il disco con un delicato solo di Brian Jackson al pianoforte, autore anche del brano. Mamma mia!!

Contemporaneo a First Minute è un altro lavoro con la Midnight band: From South Africa to South Carolina (1975). Gli impasti sonori sono simili, i testi sempre impegnati e la vena compositiva di grande livello. Tra i brani da segnalare Johannesburg () e un’altra grande ballad, A toast to the people (), sorta di omaggio ai grandi personaggi della lotta per l’uguaglianza dei neri in America. Jazz soffuso, un intensissimo solo di pianoforte di Brian Jackson e una voce solista da brivido: Victor Brown. La vena jazz si asciuga progressivamente e negli anni Ottanta Gil fa musica più secca e ritmica, flirtando a volte con ritmi reggae.

Dopo questi inizi promettenti, la brusca frenata. Il nuovo millennio segna un tragico cambio di rotta nella vita del nostro: arrestato più volte per detenzione ed abuso di stupefacenti, braccato dalla giustizia ed inattivo sotto il profilo artistico. Passa periodi in cui vive come un barbone e il tunnel non sembra finire. Anzi la tossicodipendenza sembra aver avuto definitivamente la meglio sull’intelligenza del nostro. Destino ironico per un uomo che ha sempre denunciato i pericoli del ghetto e che aveva fatto della lucidità di messaggio il suo credo. Un grande con una brutta fine. E’ morto quest’anno per una qualche complicazione ai polmoni:era da diverso tempo esposto all’HIV.

Vi lascio all’ascolto di The Bottle che ricorda un pò Isaac Hayes che il mio due di coppia preferisce a Heron. Questa è un’altra faccenda però: me ne occuperò tra un pò. Buon ascolto e alla prossima.

Il libro:

Gil Scott Heron è sempre stato un artista difficile da incasellare: poeta, romanziere, cantante, musicista, agitatore…tutto unito in un’unica vulcanica personalità.
Inizia come scrittore. In italiano si può trovare tradotto il suo romanzo più importante, il vecchissimo La fabbrica dei negri – Shake underground, un libro ben scritto; ambientato in una università per gente di colore alle prese con un sistema educativo fortemente repressivo.
Il romanzo ha una scrittura semplice, al servizio di una trama avvincente che mostra quali problemi attraversò il movimento dei neri e il drammatico riflusso degli anni Settanta dopo le lotte per i diritti civili. Ma nell’introduzione Gil Scott-Heron espone una specie di “dichiarazione d’intenti” sull’arte nera, cui si atterrà coerentemente per tutti gli anni a venire, guadagnandosi un ruolo di primo piano nel mondo afroamericano, non solo musicale. “I nostri educatori devono fermarsi un attimo per valutare con onestà il sistema di selezione che perpetua la truffa accademica. Il fulcro della nostra attenzione intellettuale deve staccarsi dal pensiero greco e occidentale per trasferirsi al pensiero orientale e del Terzo Mondo. I nostri modelli artistici devono essere neri, non più bianchi. Dobbiamo coltivare la nostra naturale creatività “(Dall’introduzione a La fabbrica dei negri).

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