Erik Larson, Il giardino delle bestie

   Tempo di lettura: 8 minuti

Oggi è difficile sfuggire alla storia in divenire: chiunque abbia uno smartphone è in grado di seguire una rivoluzione e di riferirne al mondo e, anche se l’accesso istantaneo presenta la realtà così come la si riprende, le analisi sono sempre successive: pubblica prima-verifica dopo è, infatti, il linguaggio corrente del web. Sicuramente meglio di quello che successe nella Germania nazista tra il 1933 e il 1934, quando un gruppo di sadici psicopatici assunse il potere di un paese e il resto dell’umanità rimase semplicemente a guardare quello che quel potere voleva far vedere.

Questo è il terreno su cui si muove il nuovo libro di Erik Larson: il misterioso e inquietante “Il Giardino delle bestie”. Una cronaca a forma di saggio, basata sulla vita di una famiglia americana che trascorse un anno a Berlino durante quel periodo. Il libro di Larson solleva la questione scritta nell’incipit di queste note: come facciamo a sapere se il male è implacabile quando lo non vediamo? E come reagiamo dopo?
Larson, uno storico esperto e popolare (dalle sue parti, da noi non è mai stato tradotto prima) ha esplorato il male anche in precedenza; in particolare nel suo best-seller “Il diavolo nella Città Bianca”, tratto da un fatto vero, è la storia di un serial killer predatore ai tempi dell’esposizione universale di Chicago del 1893. Sarà stata questa la “molla” della traduzione di quest’ultimo e, tutto sommato, con una certa ragione.
Come per il “Diavolo”, il “Giardino delle bestie” offre al lettore, sotto una forma molto particolare di scrittura – tra storia, cronaca, e racconto – uno scenario che offre spunti per una certa tensione.

Nella decadente Berlino, con i suoi parchi verdeggianti e la sua favolosa vita notturna, l’epoca è il teatro per l’amore, il sesso, le trame e gli imbrogli politici e, come sapremo poi, il terrore. La città ha le sue vittime: i cittadini ebrei, che lottanno per respirare dal grande cappio nazista che si stringe intorno alle loro gola. Non molto diverso dal thriller già citato che ha per protagonista un killer spietato e le sue vittime sulle rive del lago Michigan.

In questo tumulto della storia caddero William E. Dodd e la sua famiglia. Dodd, un professore dell’Università di Chicago, studioso e amante della Germania fin dagli anni di giovane studente, è in cerca di una svolta personale e professionale decisiva a cambiare la sua vita e quella della sua famiglia. L’occasione è una telefonata nientepopodimeno che da Franklin Delano Roosevelt, il presidente degli Stati Uniti, che gli annuncia la sua intenzione di candidarlo a capo della rappresentanza diplomatica americana a Berlino. Dopo il rifiuto di un paio di candidati certamente più qualificati per la posizione, Roosevelt decise proprio per Dodd.

Dodd non aveva alcuna preparazione per la posizione. Non aveva soldi di famiglia: a quel tempo, la maggior parte dei diplomatici pagavano anche a spese proprie alcune “occasioni sociali” richieste della diplomazia, nessuna esperienza in termini di comportamento istituzionale ed “etichetta” e, peggio, nessuna altrettanta esperienza in fatto di negoziazione, in specie con i nazisti. Ciò nonostante, nella sua incredibile ingenuità, Dodd pensava di poter esercitare “un’influenza moderatrice su Hitler e il suo governo”. Dodd e la sua famiglia: moglie, figlio e figlia Martha, partirono per Berlino.

Se Dodd era un ingenuo, Marta era una ignara: il libro si basa su documenti e ricerche che rendono la storia molto aderente a quello che è, evidentemente, accaduto. Durante il soggiorno berlinese, Martha ebbe relazioni molto ravvicinate (chi vuol capire, capisca) con un diplomatico francese, il capo della Gestapo sposato e con il primo segretario dell’ambasciata sovietica. Nel suo libro di memorie, l’autore riferisce, Martha ha raccontato la sua infatuazione iniziale con i nazisti: “L’entusiasmo per quella gente era contagiosa e mi sentivo come una bambina, esuberante e spensierata; l’ebbrezza del nuovo regime aveva l’effetto come per il vino su di me “. Prima, in tutta evidenza, di aprire gli occhi su quello che stava accadendo.
Larson ricrea il rullo dei tamburi terribile sugli eventi di quel periodo, mentre i nazisti consolidano il loro potere. Gli ebrei e altri “indesiderabili” furono spogliati dei loro mezzi di sussistenza, dei loro beni e dei diritti civili fondamentali. In una scena quasi da incubo, l’autore descrive il terrore di Martha e di due suoi amici mentre assistono al linciaggio di una donna che aveva una relazione con un uomo ebreo.

Causa pure una scarsa capacità di visione di Dodd, il governo americano rimase per gran parte del tempo in silenzio mentre in Germania si consumava la tragedia. E su questo silenzio, Larson offre alcune possibili ragioni: l’onere della depressione, la paura dell’amministrazione Roosevelt di essere accusata di ipocrisia, dato il trattamento dell’America verso i suoi cittadini di colore in un’epoca di privazione dei diritti civili sul suo suolo (e reiterata nel tempo, aggiungo). Tuttavia alcuni documenti dell’ambasciatore sottolineavano le criticità del governo nazista e delle sue azioni contro il suo popolo ed è difficile credere come i politici non avrebbero potuto dare credito alle carte: “Hitler,” diceva Dodd: “persegue una politica di persecuzione verso gli ebrei che faranno una brutta fine in questo paese”.

La narrazione del “giardino delle bestie” culmina con il fine settimana del 30 giugno 1934, oggi conosciuta come “La notte dei lunghi coltelli”, quando Hitler circondò la maggior parte dei suoi avversari politici e li uccise. Hans Gisevius, un membro della Gestapo che si rivoltò contro Hitler, fu testimone dell’epurazione, “di come gli uomini furono fatti marciare in fila e fucilati”. Larson commenta che “…la parola scritta non può riprodurre il sangue versato, la lussuria, l’ira, la vendetta e, allo stesso tempo, una paura fredda e feroce che è molto più terribile di essere davanti alla morte”. Ancora: l’ambasciatore francese dell’epoca riferiva a Dodd che “…non sarei sorpreso di essere fermato in qualsiasi momento per le strade di Berlino.” Eppure, ancora per le settimane successive, il Dipartimento di Stato americano riferiva che per gli americani era sicuro viaggiare in Germania. Come la storia ricorda, bisognerà aspettare Perl Harbor per vedere il loro ingresso nella seconda guerra mondiale.

Da “il giardino delle bestie” si ottengono un paio risultati contrastanti: da una parte è difficile ancora oggi avere una risposta completa sul periodo nazista: la Germania soffre, ad ogni evento scatenante, della sindrome del passato che non passa. Dall’altra, la storia di un ambasciatore impreparato che contribuì, forse, al ritardo della discesa in campo degli Stati Uniti nel conflitto, e della sua irresponsabile figlia.

Con una lezione finale: se gli umani sono capaci di tanto male, quali mezzi sono necessari per ingabbiare la bestia? La storia recente ci dice bene che non lo sappiamo. La primavera araba è stata vissuta dal mondo in presa diretta con gli eventi che l’hanno caratterizzata. Non è sufficiente, invece, per la comunità internazionale aprire gli occhi su quanto accade in Siria dove, il suo presidente, sta massacrando il suo popolo praticamente indisturbato.

per BookAvenue, Michele Genchi

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2 commenti

  1. Ho capito che preferisci commentare i miei articoli piuttosto che scriverne uno. Molto, molto tempo fa, ricordo, ti piaceva scrivere di libri. Hai perso la penna?

    se queste note posso servire a comprare una copia….(parole tue)

    Michele

  2. Patacca, hai finito i libri da leggere per caso? con tutti i libri che, ricordo, hai in casa?
    che roba è?

    f.

I commenti sono chiusi.