I gattopardi. L’attualità del capolavoro di Tomasi di Lampedusa

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo dal gruppo di lettura degli Amici del Libro di Montichiari

“Poche ore dopo la mezzanotte del 23 luglio 1957, Tomasi di Lampedusa moriva nel sonno.
Solo un anno prima, quando il mortale destino era ancora ignoto alle righe de Il Gattopardo e alla consapevolezza del suo autore, il principe di Lampedusa andava scrivendo il romanzo che l’avrebbe reso eterno. Non c’è da stupirsi che il primo approccio con lo scritto sia fallimentare, poiché è da studenti che generalmente se ne conosce l’essenza, nel vincolo di un dovere che ruba la bellezza a una memorabile prosa, da qualcuno definita “d’arte”. Il fascino dell’opera si svela poi negli anni, quando scorrendo lo sguardo sopra una fila di vecchi libri, si torna a leggerlo. E Il Gattopardo, tanto per intenderci, «è uno di quei romanzi nei quali, anche quando la macchina del racconto sembra incepparsi o rallentare di ritmo, c’è sempre almeno un motore di riserva che funziona» (Geno Pampaloni)

Per anni numerosi critici, ossessionati dalla necessità di trovare un aggettivo che lo inscatolasse in un genere e impegnati nel gioco classificatorio, hanno ricercato quella soluzione che accontentasse tutti, ma: «Il Gattopardo è troppo introspettivo-psicologico per essere solo un romanzo storico, troppo documentato sull’epoca dei fatti per essere solo un romanzo psicologico» (2). C’è chi ha interpretato l’intero scritto come un’unica, grande metafora esistenziale: nell’andare delle pagine, la feroce bestia cambia veste e, da simbolo araldico, diventa limpida immagine del protagonista, che del gattopardo ha metaforicamente la forza e l’imponenza.-.( Giorgio Masi).-

Il principe Fabrizio Salina, la cui vicenda quotidiana stava per essere narrata sotto il titolo La giornata di un siciliano, è un uomo complesso e ansioso della fine, della meta, del risultato. Caratterizzato da un profondo e cieco conflitto interiore, tormentato dai sensi di colpa (verso la moglie andando da Mariannina o per avere votato “sì” al plebiscito contro le proprie convinzioni), mostra una calma tutta esteriore, che cela un’ira repressa e si palesa nel pugno stretto fino a conficcare le unghie nella carne. Il principe ha pensieri che sfuggono al mondo circostante degli amici e della famiglia, accosta riflessioni inintelligibili agli altri, che lo conducono all’inesorabile rifugio di sé e all’osservazione del cielo e degli astri, sua enorme passione. Un solo personaggio ne intuisce la natura tormentata e l’irrequieto agitarsi dell’animo ed è Tancredi, il nipote che sa sciogliere i dubbi dello «ziòne», il solo in cui l’uomo-gattopardo possa in qualche modo vedersi riflesso, mentre il suo sguardo assiste impotente al crollo delle istituzioni e dei costumi sociali, alla fine di un’epoca.
Nell’ammirazione di don Fabrizio per Tancredi si percepisce uno slancio immodesto ed egoistico, perché in fondo, scrive Lampedusa, «lui stesso è come Tancredi». Il rapporto con gli altri personaggi del romanzo è decisamente d’altra specie: il rispetto di Padre Pirrone e Ciccio Tumeo non è corrisposto dall’alterigia tutta aristocratica del principe Salina, vero pater familias, autoritario e virile almeno nei primi capitoli del romanzo, quando l’avvicinarsi di un’inevitabile fine non ha ancora ammuffito la sua linfa vitale. Il tormento del principe è crescente nell’avvicendarsi delle pagine: «Appartengo ad una generazione disgraziata, a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due».
C’è una costante ironia nelle pagine de Il Gattopardo, espressa, tra l’altro, dall’animazione metaforica degli oggetti o dall’uso esasperato di termini latini, latineggianti, pomposi, a volte barocchi. E non avrebbe potuto essere altrimenti poiché, come molti sanno, l’ironia tipicamente siciliana, beffarda e tagliente, contraddistingue il ricordo di Lampedusa ogni qualvolta leggiamo di lui. L’autore non fa quasi mai capolino nella vicenda ma, nella rarità delle intromissioni, la sua idea si esprime attraverso massime ricche di sarcastica verità: «attribuire ad altri la propria infelicità […] è l’ultimo ingannevole filtro dei disperati». Le descrizioni assolate, dominate dal senso di morte e dalla pesante pigrizia di un clima quasi africano, fanno intravedere splendidi paesaggi, indimenticabili raffigurazioni, tra cui quella dei giardini di Villa Salina e la fontana di Anfitrite; e indimenticabile è anche l’amato alano di don Fabrizio che — scriveva Lampedusa a Lajolo — «In un romanzo da cui quasi tutti i personaggi escono male è l’unico sicuramente positivo». Bendicò, eterno amico a quattro zampe, è come le stelle, ha il loro stesso compito: tranquillizza il principe, fiuta falsità e ipocrisie (significativo il suo ringhiare contro Angelica). I critici ne hanno giustamente sottolineato il ruolo strutturale all’interno della vicenda: appare all’inizio, facendo irruzione nella sala in cui si recita il rosario e nell’ultima pagina, quando muore trovando riposo «in un mucchietto di polvere livida», a suggellare la fine di tutto.
L’ideologia politica di Tomasi di Lampedusa è riassunta e semplificata, come scriveva Pampaloni, nella terza parte de Il Gattopardo — «senza vento l’aria sarebbe stata uno stagno putrido, ma anche le ventate risanatrici trascinavano con sé tante porcherie» —, nel discorso di Tancredi e nella sua celebre frase che descrive la situazione storica della Sicilia del 1860: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Infine, in riferimento alla concezione di Lampedusa della storia umana, vale l’espressione di don Fabrizio: «e dopo sarà diverso, ma peggiore».
L’ombra della morte, quasi sempre presente, è «come un ronzio continuo all’orecchio», nei presagi e nel sonno, nel solleone e negli oggetti; l’ineluttabile destino, a volte vigliacco, altre spudorato, si avverte costantemente in un crescendo vertiginoso. «L’annunciazione della morte comincia per don Fabrizio a palazzo Pantaleone […] nel calore del ballo […], nel suono del valzer che gli sembra l’immagine dell’incessante passaggio del vento sulle terre assetate» (3). E anche nel ballo dei due giovani innamorati, Angelica e Tancredi, il nero cupo e opaco della fine pesa angoscioso e funesto; ed essi sono: «Attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione». Sono marionette in uno squarcio orribile e patetico, mentre li immaginiamo: «Nella reciproca stretta di quei loro corpi destinati a morire».
Nella confessione di don Fabrizio, il momento in cui i nostri occhi sono incapaci di staccarsi dalle righe del romanzo, si ha la sensazione di un procedere velocissimo verso l’epilogo preannunciato, terribile e straziante; i peccati parevano al principe troppo meschini per farne un elenco in quella giornata di afa; e poi: «era tutta la vita ad essere colpevole, non questo o quel singolo fatto; e ciò non aveva più il tempo di dirlo».
La chiave di lettura de Il Gattopardo, senza andare troppo lontano, la troviamo nelle parole stesse di Lampedusa, che in una lettera a Lajolo del 1956 scriveva: «Bisogna leggerlo con grande attenzione perché ogni parola è pesata ed ogni episodio ha un senso nascosto». Ne Il Gattopardo: «Non vi è nulla di esplicito»; e l’«esplicito», per usare il significato lampedusiano del termine, è qualcosa di «rozzamente contadinesco o brutalmente melodrammatico» .-
I profumi, i colori della Sicilia, si fondono con l’immagine di Don Fabrizio che si snoda con costanza e continuità tra le pagine, intrecciandosi con la storia e la vita degli altri protagonisti del romanzo. Quasi a riempire la figura di quest’uomo definito immenso e fortissimo. E sembra che tutto debba racchiudersi in lui, ma in maniera simmetrica, nello stesso modo in cui la pagina procede.
Tutto è costruito per placare lo smodato desiderio di vita del protagonista, e ogni personaggio è un suo frammento, quasi a dargli una possibilità diversa, all’interno di una realtà soffocata dalle apparenze, e da una vita epidermicamente ripetitiva.
La cosa di sicuro più interessante, che ha dato anch’essa ampio spazio ai dibattiti e alle polemiche, è il modo in cui Tomasi di Lampedusa usa le parole, per dare aria alle pagine, piuttosto che i segni d’interpunzione. Aprite Il Gattopardo e immaginate di non trovarli più. Scoprirete come le parole, da sole, facciano da contrappunto alla struttura, come la cadenza sia determinata da un appoggio di voce, da un suono insito nel significato della parola stessa, dal divenire della frase.
Questo fa comprendere come un libro ancora oggi, accettato o rifiutato, trovi nella parola la sua ragion d’essere, al di là dei formalismi stilistici e della pastosità del linguaggio. Ed è anche la ragione del suo lungo calvario alla ricerca di un editore, nonostante i lettori privilegiati, Elio Vittorini per esempio, fossero ben attenti e capaci di comprenderne la forza, ma ancora convinti che scrivere fosse solo un abile gioco di punti e virgola. [II Gattopardo venne pubblicato postumo da Feltrinelli, per volontà di Giorgio Bassani, nel 1958 e diventò subito un best seller e un “caso letterario”. Contribuì ad alimentare il dibattito, fra l’altro, il fatto che Vittorini, consulente della Einaudi, aveva rifiutato la pubblicazione ndr.]
La modernità di questo romanzo è qui: nella sua capacità di essere profondamente radicato nella terra di cui parla, ma anche di capovolgere le regole, dando una lezione di scrittura a tutti quelli che alla terra straniera della scrittura sono appartenuti e appartengono.

AMICI LIBRO MONTICHIARI
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