Magda Szabò, La ballata di Iza

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foto autoreHa ormai novant’anni, Magda Szabó, e ancora qualcuno riesce a confonderla con Zsa Zsa Gabor. Forse l’aspetto, forse semplicemente la sonorità del nome, la fanno sprofondare in un tempo arcano, segreto. In verità la più che premiata Szabó ha all’attivo più di dieci romanzi pubblicati, testi teatrali e racconti per bambini. In Francia è successo nel 2005, adesso è la volta dell’Italia: la scrittrice ungherese gode di una insperata primavera e entra nei primi posti delle classifiche librarie. I processi editoriali vanno comunque a rilento e, ancora, non si annunciano nuove traduzioni in italiano, nonostante l’attività promozionale del suo editore francese, Vivien Hamy.

Scritto nel 1963, questo La ballata di Iza è uscito, in Italia, nella traduzione di Bruno Ventavoli, alla fine del 2006. La quantità di anni che intercorre tra la data di pubblicazione originale e l’approdo italiano non è indifferente. Soprattutto perché il romanzo si ambienta in una Budapest da poco uscita dalla monocultura staliniana, una città in ripresa come una macchina rioliata che ben poco ha a che fare con la metropoli attuale, dai prezzi altissimi e dal turismo inferocito. La distanza tra quella Budapest e il villaggio da cui proviene la vecchia protagonista Etelka non sembra inconciliabile come, certamente, ci apparirebbe oggi. Il fascino di questo romanzo sta forse tutto qui: nella sottile linea di confine che separa la vita cittadina da quella di un borgo rurale. Una linea di confine che il regime sovietico aveva cancellato, ma che il processo capitalistico ricompone.

 

La figlia di Etelka, la Iza del titolo, è il prototipo della generazione nuova. Medico in un grande ospedale, Iza ha dimenticato (con quanta difficoltà la giovane donna ricorda episodi dell’infanzia, odori, luoghi) perché intende rifondarsi secondo un modello tutto ancora da sperimentare. La madre, dopo la morte del padre, Vince, magistrato/contadino, oscurato dal regime, messo a tacere per le sue posizioni critiche, vuole, al contrario, vivere nel ricordo. Ma Iza ha piani diversi: la vuole con sé, nel suo appartamento moderno, arredato come mille altri, con la lavatrice, il frigorifero e i termosifoni, immerso nel silenzio. Le lenzuola di cotone e gli abiti caldi, il cibo non grasso ma nutriente, finiranno per “addormentare” la povera Etelka, che aspirerebbe soltanto a farsi un caffè alla turca con un fornelletto a gas da campeggio. Un’immensa voragine d’incomprensione allontana la figlia dalla madre e viceversa. L’una le offre confort materiali, semplificazioni esistenziali, mentre l’altra cerca carezze, presenza viva. L’una segue itinerari solitari, alla ricerca ansiosa di isolamento; l’altra vorrebbe confidenze, intimità, reciproche confessioni.

Szabó è maestra nel vivisezionare le infinite possibilità della molestia fatta a “fin di bene” che madre e figlia vicendevolmente declinano. Un caso per tutti: Etelka si accorge che il tempo potrà cambiare e sa che Iza non ha preso l’ombrello, uscendo, la mattina. Decide, lei che non conosce una strada, e non sa come fare a prendere un autobus, di raggiungerla all’uscita dall’ospedale munita del fondamentale ombrello. Ma lì, scorata, si rende conto che la figlia “quando il tempo è brutto chiama un taxi e va a casa”. Di lei dunque non ha alcun bisogno, non ha più alcun bisogno. La vecchia, in epilogo, grazie a uno slancio orgoglioso, decide di tornare al suo villaggio per la posa della lapide sulla tomba del marito. In una notte di nebbia si smarrirà in un cantiere – uno smarrimento raccontato come fosse un rituale di morte – e finirà naturalmente per cadere da un ponteggio. Solo in chiusura, dopo aver ultimate tutte le pratiche per la sepoltura di Etelka, Iza emetterà un grido straziato alla vana ricerca di un ricomponimento familiare.

Anche in La ballata di Iza, la scrittrice affonda dentro il tema a lei più caro: il rapporto tra due donne, che è poi quello che ritroviamo nel precedente romanzo, La porta, e in quello pubblicato da Feltrinelli alla metà degli anni settanta, La seconda Ester. Scritto con nitidezza e meticolosa attenzione al regno delle cose – la felicità della traduzione in italiano è la vera cartina di tornasole –, il romanzo sorprende per la costruzione secondo modelli e ascendenze tutte europee che volutamente si allontanano da tanta letteratura postsocialista. L’orizzonte politico è solo uno sfondo sulla scena, a differenza di autrici contemporanee provenienti da aree a influenza russa (penso a Simona Popescu) che hanno invece, su quella memoria specifica, costruito un modo di pensare e fare letteratura assai peculiare. La nostalgia qui funziona insomma come uno stratagemma un po’ artificioso, manipolato come una forma d’esotismo al contrario; ben altra potenza espressiva e sentimentale è rintracciabile in esperienze, di scrittura e di vita, meno note al pubblico. Che ormai sono state codificate come affluenti alla “nostalgia del comunismo”.


copertinaMagda Szabo’
La ballata di iza
Einaudi

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