L’attualità e la modernità del Partito d’Azione

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Il dibattito sull’esperienza del Partito d’Azione e gli azionisti non sembra cedere all’usura del tempo tanto quanto al conflitto con cui il dibattito su quell’esperienza politica prosegue tra accuse e falsi revisionismi in specie per accusare la formazione politica e i suoi esponenti, di “astrattezza”, di “velleitarismo”, di “rigidità moralistica”. 
Per fortuna, col suo saggio su “Il Partito d’Azione e gli italiani”, lo storico Claudio Novelli ha rimesso un poco d’ordine portando alla luce nuove fonti documentali, e proponendoci di rivisitare quegli anni, prima drammatici e poi (anche) esaltanti.

 

Così, da una parte emerge con chiarezza che gli azionisti sono stati fra i pochissimi a capire che il fascismo non era stato affatto un’insolita parentesi, o addirittura una anomalia temporanea nella storia italiana del ‘900, ma ha avuto radici lontane, perché si identificava in alcuni dei mali antichi, come l’apatia politica, il conformismo, la tendenza a mettersi sempre al fianco del vincitore di turno. Dall’altra parte, attraverso l’analisi di Novelli si avverte come mai proprio da questa severa denuncia è nato il progetto azionista, di impegnarsi non solo a vincere quel pessimo costume (e carattere) ma a costruire insieme una vera e propria alternativa in termini di rinnovamento civile. Certo, la rivoluzione democratica, per cui hanno cercato di battersi Parri, La Malfa, Valiani, Lombardi, Calamandrei, Foa e altri, poteva sembrare impossibile da mettere in pratica in un Paese per tanti aspetti scettico e attendista, perché ancora così lontano in termini di maturità politica. Ma è storicamente falso il cliché di chi ancora oggi insiste a confondere con la sinistra comunista gli obbiettivi di quel gruppo minoritario e intransigente. Nessuno è così ingenuo da reclamare un ritorno al modello azionista, ma nessuno dev’essere così settario da misconoscere che avevano ragione gli azionisti di reclamare efficienza e stabilità di governo, riforma della pubblica amministrazione, una politica di programmazione economica, la prospettiva di unificazione europea.

Certo le speranze riposte nella lotta partigiana furono molte. Gli scritti dei dirigenti azionisti tra il 1943 e il 1945 erano percorsi dalla convinzione che la realtà dell’Italia fosse investita da profonde tensioni e da autentiche possibilità rivoluzionarie. Il paese, dopo la catastrofe del fascismo, sembrava ormai maturo per una svolta storica, quella della « rivoluzione democratica ». Dopo tante stagioni in cui l’opposizione al regime aveva collezionato solo terribili sconfitte, il fronte dell’antifascismo sembrava finalmente essersi messo in movimento dando vita a una sollevazione collettiva più larga di quanto non si fosse sperato. La lotta degli operai e dei soldati era espressione di una ben consapevole volontà e Franco Venturi scriveva che, così era, in quanto il 25 luglio si era aperta una crisi dall’autentico « carattere rivoluzionario ».
Non erano, queste, semplicemente formule propagandistiche, in esse c’era davvero tutto il pensiero e tutto quanto aveva animato l’antifascismo di uomini come Venturi, Valiani, Garosci ed altri dal momento in cui, negli anni Trenta, avevano lasciato l’Italia. In una lettera del maggio ’44 Valiani scriveva a Venturi : « Bisogna decidersi ; o si è per la rivoluzione o per le riforme ; noi siamo per la rivoluzione ». A sua volta, riprendendo questa tensione radicale, Venturi si rivolgeva ai dirigenti azionisti ben diversamente orientati che operavano nel Sud con queste parole : « Quassù […] c’è un vero fuoco sotto le ceneri e le rovine. La situazione è ben più rivoluzionaria di quanto molti di voi, mi pare, pensino, anche se non è affatto rivoluzionaria nel vecchio senso della parola ».

Attraverso la Resistenza si trattava di riconquistare anche un’identità nazionale che era stata manomessa dal fascismo. Occorreva sconfiggere chi, nel conflitto in corso, continuava a essere portatore di una distorta concezione che voleva la nazione non prodotto della pacifica convivenza tra uomini, ma organismo tendente alla propria esclusiva esistenza ed espansione. Il nemico era rappresentato dal morbo del nazionalismo a cui veniva contrapposta un’idea di patria – collocata peraltro all’interno della migliore tradizione europeista e federalista – che rappresentasse finalmente una risorsa importante per la ricostruzione morale del paese e lo sviluppo di quella identità collettiva, basata sulla condivisione di ideali e valori, di cui gli italiani erano sempre stati carenti.

La modernità del pensiero azionista sta tutta qui. Se è vero che le idee sono state lasciate al secolo scorso, nuove urgenze e nuovi conflitti hanno rinnovato con forza il pensiero rivoluzionario e illuminato di quegli uomimi che fecero il Paese. Rimane vitale il loro appello a recuperare il valore “alto” della politica, non per libidine di potere ma come forte strumento di moralizzazione.
Ecco perché le pagine di Novelli su moralità, politica e cittadinanza nella storia repubblicana sono, insieme, così melanconiche e così istruttive.

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