Gaime Alonge, L’arte di uccidere un uomo

copertina
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copertinaGiaime Alonge,
L’arte di uccidere un uomo
Baldini e Castoldi

L’arte di uccidere un uomo è un romanzo bellico e come tale è pieno di sconfinamenti e mutuazioni dal cinema di guerra. Il bellico, infatti, è uno di quei generi che, come la fantascienza o il noir, si sono sviluppati a cavallo tra letteratura e cinema, finendo con il creare un bagaglio comune di immagini, situazioni, personaggi.
Quello della missione portata a termine da un gruppo di soldati eterogeneo per provenienza geografica e sociale, e per idee e visione del mondo, è un vero e proprio topos del war film, da Obiettivo Burma (1945) a Salvate il soldato Ryan (1998). Senza considerare che i film sui mercenari – I quattro dell’Oca selvaggia (1978), I mastini della guerra (1980) –  rappresentano a tutti gli effetti un sotto-genere del war movie.

Ma nell’Arte di uccidere un uomo si respira anche l’aria di altri generi cinematografici. Il western, innanzi tutto, quello classico di John Ford, così come il neo-western di Sam Peckinpah. E a metà del viaggio dei protagonisti attraverso le montagne tra Iraq e Turchia, improvvisamente, la vicenda prende una svolta da racconto d’avventura al limite del fantastico. In quei capitoli, il romanzo diventa una specie di mélange tra I predatori dell’arca perduta (1981), Conan il barbaro (1982) e il racconto di Rudyard Kipling L’uomo che volle farsi re, di cui nel 1975 John Huston fece una memorabile versione cinematografica con Sean Connery e Michael Caine, quest’ultimo modello esplicito di uno dei due eroi del mio romanzo. E andando oltre il cinema, è chiaro che nelle pagine dell’Arte di uccidere un uomo ci sono anche certi fumetti popolari negli anni Settanta, come Tex, Zagor e Guerra d’eroi, oltre che – ovviamente, per chi oggi è intorno ai 40 anni – Sandokan.
Non si tratta di nostalgia per il pop degli anni Settanta, che è anzi un atteggiamento che non amo, ma ognuno si porta dietro la cultura in cui è cresciuto, anche incosapevolemente. Qualche mese fa mi è capitato per caso di rivedere una puntata di Sandokan, che appunto mi aveva assolutamente stregato da bambino, ma cui da allora non avevo più pensato molto, e certo non mentre stendevo il romanzo. Rivedendo le immagini di quello sceneggiato, all’improvviso mi sono reso conto che i due protagonisti del mio libro sono chiaramente una trasfigurazione di Sandokan e Yanez.
Il mio primo ricordo cineamtografico è I magnifici sette (1960), visto al cinema all’aperto di Ceriale Ligure. Se dovessi definire L’arte di uccidere un uomo con una sola frase, come si fa davanti ai produttori hollywoodiani, direi che si tratta dei Magnifici sette con i veterani dell’Armata Rossa, in una parola: un eastern. mg 05-12

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