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La lotta di classe dopo la lotta di classe

   Tempo di lettura: 7 minuti

riceviamo e volentieri pubblichiamo

La classe di quelli che da diversi punti di vista sono da considerare i vincitori – termine molto apprezzato da chi ritiene che l’umanità debba inevitabilmente dividersi in vincitori e perdenti – sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti.
Questa classe dominante globale esiste in tutti i paesi del mondo, sia pure con differenti proporzioni e peso. Essa ha tra i suoi principali interessi quello di limitare o contrastare lo sviluppo di classi sociali – quali la classe operaia e le classi medie – che possano in qualche misura intaccare il suo potere di decidere che cosa convenga fare del capitale che controlla allo scopo di continuare ad accumularlo.
Caso la lettrice o il lettore non lo sapessero:
il maggior problema dell’Unione europea è il debito pubblico.
Abbiamo vissuto troppo a lungo al di sopra dei nostri mezzi.
Sono le pensioni a scavare voragini nel bilancio dello Stato.
Agevolare i licenziamenti crea occupazione.
La funzione dei sindacati si è esaurita: sono residui ottocenteschi.
I mercati provvedono a far affluire capitale e lavoro dove è massima la loro utilità collettiva.
Il privato è più efficiente del pubblico in ogni settore: acqua, trasporti, scuola, previdenza, sanità.

È la globalizzazione che impone la moderazione salariale.
Infine le classi sociali non esistono più.

Quanto sopra sembrerebbe un primo elenco compilato alla buona da qualcuno che colleziona idee ricevute, in preparazione di un dizionario delle medesime curato da imitatori contemporanei di Bouvard e Pécuchet. Purtroppo non si tratta di un esercizio per scapoli solitari, come nell’opera di Flaubert. In forma più o meno strutturata, quelle idee vengono ogni giorno presentate come essenza della modernità, ovvero del mondo che è cambiato ma finora non ce n’eravamo accorti. Nell’esporle si cimentano quotidiani di ogni stazza, grandi medi e piccoli, e ovviamente la tv (ma al riguardo parlare di idee strutturate sarebbe troppo); quasi tutti i politici, quale che sia il partito di riferimento; un buon numero di sindacalisti; migliaia di docenti universitari nei loro corsi; nonché innumerevoli persone comuni.
Dinanzi a una simile totalitaria unanimità, mai rilevata nella storia dell’ultimo secolo, viene da chiedersi anzitutto per quali vie abbia potuto svilupparsi. In cerca di una spiegazione, si potrebbero mobilitare illustri teorie della falsa conoscenza, dalla caverna platonica agli idola di Bacone, dal velo dell’ideologia di Marx al concetto di egemonia di Gramsci. Oppure, per stare più sull’ordinario, si potrebbe rinviare al fiume di pubblicazioni, convegni e dossier che, muovendo dai serbatoi del pensiero, dai think tanks internazionali del neoliberalismo, diffondono quotidianamente le sue mitologie: economica, politica, monetaria, educativa. Le quali, a differenza dei miti, diventano pratiche di governo e di amministrazione a tutti i livelli della società. Chissà se Foucault sarebbe contento, oppure atterrito, nel vedere come la sua teoria del governo diffuso, della governamentalità, appaia sempre più confermata.

 

In secondo luogo bisognerebbe capire come mai tale repertorio di idee ricevute risulti del tutto impermeabile alla realtà. E certo non da oggi. Infatti, a dispetto della unanimità di cui godono, non una delle suddette idee – al pari di dozzine di altre della stessa genìa che dobbiamo qui tralasciare – ha un fondamento qualsiasi di ragionevole solidità. Oltre ai rapporti dei centri studi di mezzo mondo, è la realtà stessa che da decenni, quotidianamente, si incarica di prenderle di continuo a ceffoni. Per dire, sono proprio i mercati che meglio incorporano la teoria del libero mercato, quelli finanziari, che hanno disastrato l’economia mondiale. Il paese che ha avuto meno problemi con l’occupazione nel corso della crisi è la Germania, dove i sindacati hanno nel governo delle imprese un peso rilevante. I problemi peggiori li hanno avuti, e li hanno, gli Stati Uniti, dove la facilità di licenziamento è massima: basta un foglio rosa che il venerdì invita a non presentarsi al lavoro il lunedì successivo, se non anzi una battuta faccia a faccia: “sei fuori”. Quanto alle privatizzazioni, alla supposta superiorità intrinseca e universale del privato sul pubblico per produrre e gestire beni pubblici, si può rinviare all’analisi degli effetti che esse hanno avuto nel Regno Unito tra il 1980 e la fine del secolo, dove furono eccezionalmente imponenti. Con un impegno per il lettore: trovare almeno un effetto che non sia negativo, tra produttività e disuguaglianze di reddito, costi di un dato servizio e qualità del medesimo.
A chi scrive sarebbe tornato gradito impegnarsi in entrambi i campi. Prima l’analisi dei modi in cui il complesso di idee ricevute menzionate all’inizio è diventato il pensiero unico, ovvero l’ideologia totalizzante che scandisce contenuto e ritmo non solo delle nostre vite ma pure delle nostre menti. Poi il tentativo di spiegare perché mai, nel caso in cui la realtà confuti massicciamente la teoria egemone, la prima viene ignorata e la seconda confermata e riproposta, per quanto vetusta, come fosse nuova o mai smentita dai fatti.

Purtroppo questo doppio impegno sarebbe andato molto al di là delle nostre forze, nonché delle attese dell’editore. Abbiamo quindi tentato di limitarci ad un solo tema, provando a dire che le classi sociali esistono ancora, sebbene siano scomparse dalla mente di quasi tutti noi; hanno come testimonianza della loro realtà lo stato del mondo in cui viviamo; e il futuro dipende da come l’interazione tra di esse si evolverà, tra le tante potenzialità di conflitto, compromesso, forme di egemonia vincenti o perdenti che essa nel fondo contiene. Alla fine abbiamo dovuto constatare che, ad onta della scelta monotematica iniziale, ci siamo inevitabilmente occupati di parecchi dei temi che avevamo pensato di lasciare da parte.

Luciano Gallino e Paola Borgna

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