C'è un'onestà profonda nel suo lavoro letterario. Con una grazia asciutta, Whitehead denuncia la “supremazia del maschio bianco” non tanto nelle sue manifestazioni più dichiarate, ma in quelle meno visibili: quel punto cieco che è il “razzismo strutturale”. Denuncia il narcisismo spirituale del Sogno Americano, la più raffinata arma del sopruso: Se lavori sodo, ce la farai! Se ci credi, il tuo pensiero creerà la realtà! Il che implica che quelle infanzie africane, azzoppate prima che la gara cominci, non abbiano lavorato abbastanza sodo da farsi strada; o che le donne afroamericane e ispaniche di Buffalo, ammalatesi in massa di Lupus e artrite reumatoide per l’interramento di rifiuti tossici nel loro quartiere, non ci abbiano “creduto” abbastanza.
Ne I ragazzi della Nickel, il giovanissimo protagonista nero Elwood è cresciuto ascoltando i discorsi di Martin Luther King, e il suo sogno è vivere una vita normale, da uomo giusto. Di fronte alla violenza che infiamma le strade alla fine degli anni Sessanta, risponde a se stesso: “devo solo continuare a fare quello che ho sempre fatto: comportarmi bene.” Finisce invece nel riformatorio Dozier di Marianna, in Florida, per un reato mai commesso. Potremmo dire “per uno scherzo del destino”, ma non sarebbe corretto; ci finisce perché è orfano e senza protettori, per ragioni statistiche, e per il colore della sua pelle.
Qui si offre l'occasione, per Whitehead, di riportare alla luce un altro pezzo di storia statunitense, così come l’antropologa forense Erin Kimmerle ha riportato alla luce – tra il 2012 e il 2014 – 55 tombe di ragazzini torturati, violentati e uccisi nella Dozier School di Marianna. Al lettore non sfugge la metafora, tristemente vera: l'edificio adibito alle punizioni corporali veniva detto “La Casa Bianca”.
Scrive Toni Morrison che “certi traumi subiti dai popoli sono tanto profondi, tanto crudeli, che […] solo gli scrittori sono in grado di tradurli e trasformare il dolore in significato, affinando l’immaginazione morale”. Qui i figli dei popoli sono sia bianchi che neri, ma essere neri è peggio. Sono ragazzi accomunati dal fatto di essere oppressi da quel ginocchio che non permette loro di respirare e che – per usare le parole di Reni Eddo-Lodge – appartiene semplicemente al predatore: il potere basato sul sopruso.
Se Elwood rappresenta l'idealismo, il suo compagno di prigionia Turner è la voce del disincanto. Il dialogo tra questi due stati d’animo è il centro del romanzo. Non è difficile intuire come andranno le cose. Eppure, quel nome – Elwood – verrà raccolto e indossato da altri, come un cappello. Perché la dignità – le idee – non muoiono mai. Perché “sopprimere ogni idea di fuga, anche un’idea così, effimera come una farfalla, significava uccidere la propria umanità”.
Un libro breve e, in questo momento, imprescindibile"
per BookAvenue, Silvia Belcastro