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L’ignoranza non paga

   Tempo di lettura: 7 minuti

Sentirsi dare dell’ignorante non è mai bello. Nessuno si compiace di esserlo, anche se la filosofia occidentale nasce il giorno in cui un signore si è autodefinito tale.

Quel tal Socrate da Atene partiva però da una siffatta presa di coscienza per lanciarsi verso il mondo della conoscenza, per curiosare il più possibile fuori e dentro di se (sarà perché si amava).

L’ignoranza di cui parliamo in questa sede è purtroppo un’altra, quella di un paese intero, un non sapere che spesso e volentieri non viene percepito ed anzi si nasconde subdolamente all’interno di una massa infinita di informazioni che volano in maniera indiscriminata di bocca in bocca, da pc a pc, che garantiscono quel rassicurante effetto placebo capace di farci sentire tutti all’altezza di poter intervenire su qualsiasi questione.

 

 

Quando però qualcuno si prende la briga di mettere in ordine dati certi e studi approfonditi sul tema, il risultato che emerge è al limite dello sconforto.

Lo ha fatto Giovanni Solimine, docente presso l’Università La Sapienza di Roma dove dirige la Scuola di specializzazione in beni archivistici e librari.

La sua ultima pubblicazione si intitola “Senza sapere, il costo dell’ignoranza in Italia”, edito per la Casa Editrice Laterza che si dimostra ancora una volta sensibile a questo argomento dopo il successo del 2004 del volume “La cultura degli italiani”, dove a fare il punto della situazione era Tullio De Mauro intervistato da Francesco Erbani.

Già il passaggio tra i due titoli dal termine “cultura” al termine “ignoranza” non lascia presagire nulla di buono, ma è proprio nell’analisi lucida dei dati che poggia il fascino di una pubblicazione intelligente, mai tediosa, capace di darci conto dell’attuale stato dell’arte.

L’autore, dopo una breve disamina dei rapporti assoluti e percentuali rispetto agli altri paesi, entra nel vivo della sua ricerca che mira ad evidenziare in termini di “valore” il livello del sapere diffuso di un paese. Cultura e istruzione sono a buon diritto inserite nella categoria dei beni comuni, costituiscono parte del benessere individuale e collettivo, il loro venir meno rappresenta un tangibile costo sociale.

Da notare come tra il volume di De Mauro e quello di Solimine scorra solo un decennio, ma si tratta di un abisso temporale se posto in relazione con il contestuale sviluppo tecnologico dei canali informativi e conoscitivi. Solimine non può non fare i conti con lo sviluppo poderoso di Internet e di tutta la rete dei social network, soffermandosi sulla differenza sostanziale tra informazioni e conoscenza.

Nell’affrontare il rapporto tra politica e cultura, l’autore ci pone dinanzi alla presenza anche in questo caso di uno “spread”, non meno rilevante di quello finanziario.

Proprio sull’approccio politico alla cultura gli abbiamo posto un paio di domande:

BA: Lei mette in stretta relazione sapere diffuso e sviluppo economico: una tesi decisamente contraria all’idea che “con la cultura non si mangia”.

GS: Chi ha affermato che la cultura non può darci da mangiare ha detto una grossolana sciocchezza. Tutte le statistiche e i confronti internazionali ci dicono che a crescere di più sono i paesi che maggiormente stanno investendo in istruzione e in ricerca, perché nel XXI secolo lo sviluppo si identifica con la capacità di innovare e di guardare avanti. Se vogliamo il passaporto per entrare nella “knowledge society” abbiamo bisogno di competenze: l’Italia invece è all’ultimo posto tra i paesi OCSE per competenze linguistiche e al penultimo per competenze logico-matematiche, abbiamo una percentuale di laureati che è pari alla metà di quella europea, e potrei continuare con i dati che dimostrano la nostra inadeguatezza. Ma c’è un paradosso su cui riflettere: pur avendo pochi laureati, abbiamo un’altissima percentuale di disoccupati o sottoccupati intellettuali. sa perché le nostre aziende non li assumono e, quando li assumono, li pagano meno di quanto non accade negli altri paesi? Per il semplice fatto che non sanno cosa farsene, perché le imprese italiane non hanno bisogno di personale qualificato, perché sono vecchie e arretrate e perciò fanno fatica a competere a livello internazionale.

BA: Sono sotto gli occhi di tutti i colpi progressivamente inferti a istruzione e ricerca. Dobbiamo leggervi una precisa strategia o si tratta solo di uno dei tanti aspetti dell’evidente scadimento della visione politica?

 

GS: Sono decenni ormai che si assiste ad un’opera sistematica si smantellamento del sistema pubblico dell’istruzione. Siamo l’unico paese dell’area OCSE che dal 1995 non ha incrementato gli investimenti nella scuola e siamo precipitati all’ultimo posto per percentuale di spesa pubblica destinata all’istruzione. Siamo al 24. posto in Europa per abbandono scolastico, seguiti solo da Spagna, Portogallo e Malta.

Il nostro corpo docente è il più anziano tra i paesi OCSE.

Però non so rispondere alla sua domanda: sarei quasi portata a dire che magari ci fosse una strategia, un disegno lucido, anche se perverso. A volte si ha la sensazione che sia solo pressapochismo. Infatti, anche quando sembra di essere di fronte a un’inversione di tendenza, mi pare che si propongano soluzioni pasticciate. Prendiamo ad esempio il piano sulla “buona scuola”, preparato dal Governo Renzi: al suo interno è presente la preoccupazione sulle deboli competenze dei nostri adolescenti, ma nel documento la parola “libro” compare una sola volta, le parole “lettura” e “biblioteche” mai. Tutto sembrerebbe doversi risolvere attraverso un’educazione all’uso delle tecnologie, come se potessimo permetterci di saltare un passaggio, di non usare la lettura come pratica educativa, come strumento attraverso il quale appropriarsi della complessità, come strumento attraverso il quale acquisire capacità argomentative.

La verità è che le competenze non mancano solo alle persone comuni, ma anche alla classe dirigente, a chi dovrebbe prendere le decisioni giuste per migliorare questo nostro sfortunato paese.

Il libro va letto, è lo strumento giusto per ragionare sullo stato culturale di un’intera società agli albori del terzo millennio. Aiuta anche a fare i conti con se stessi e a non abbandonare mai la ricerca di quella parte di benessere individuale che è rappresentato non tanto dall’aver “messo in cascina” sapere, ma dalla voglia di scovarne altro, sempre nuovo.

 

Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia.

Ed. Laterza

Anno 2014, pagg. 192

ISBN 978-88-581-1185-7

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