Il Nobel a Joyce Carol Oates: cosa buona e giusta

Carol Joyce Oates 1965
   Tempo di lettura: 6 minuti

In “Ragazza nera ragazza bianca” la grande scrittrice affronta l’omicidio di una studentessa di colore. Facendoci odiare quella vittima spocchiosa e bigotta

Chi vincerà il Nobel per la letteratura nel 2014? Don DeLillo? Philip Roth? Cormac McCharty? Chissà perché Joyce Carol Oates non compare mai nei toto-Nobel per la letteratura, soprattutto in quelli europei, tantomeno italiani. Forse perché è troppo brava. Eppure potrebbe essere la quadratura del cerchio per il circolo dei tromboni radical-chic di Stoccolma, perché i personaggi femminili di Joyce hanno i perfino i requisiti dell’engagement, volendo.

Inoltre se il quasi coetaneo Philip Roth ha mandato la scrittura in pensione, lei è ancora un fiume in piena e senza argini. Non fai in tempo a finire di leggere un libro e ne ha scritto un altro, e non sono mica i librini della Nothomb. Non l’ha stroncata neppure la morte dell’amato marito, anzi ci ha scritto il memoir Storia di una vedova, un tostissimo manuale del lutto di seicento pagine (Bompiani) e già che c’era si è pure risposata. Mentre esce in questi giorni per Mondadori Ragazza nera ragazza bianca, un romanzo in realtà del 2006: neppure a Segrate le stanno dietro, ogni tanto se ne perdono qualcuno per strada.

Tanto che sospetti sia un libro minore, anche perché scrivere un romanzo incentrato sul razzismo tra bianchi e neri sembra un terreno talmente battuto dalla letteratura da risultare impraticabile. Non per l’incontenibile ma riflessiva Joyce Carol Oates, capace di affrontare una storia semplicissima, ottocentesca, di due ragazze che condividono la stanza di un college, con una forza e una modernità sorprendenti. La voce narrante è la ragazza bianca, Genna Meade, figlia di Maximilian Meade, un avvocato rivoluzionario antischiavista e discendente dei fondatori dello stesso Schuyler College. Il colpo di scena è annunciato fin dall’inizio, quindi non dovete fare la fatica di chiedervi cosa succederà: la ragazza nera, Minette Swift, figlia di un predicatore cristiano, è trovata morta in circostanze misteriose.

Domanda: si può scrivere oggi una storia insieme così femminile e antirazzista senza sprofondare nell’edificante banalità del male e del bene, di una morale della favola già confezionata in partenza? Se fossi a un corso di scrittura creativa per far comprendere la differenza tra le stelle e le stalle chiederei di immaginare come avrebbero raccontato questo plot una Lidia Ravera, o una Michela Murgia, o una Dacia Maraini, o una qualsiasi delle nostre autrici con patentino femminista. Perfino la Nobel Herta Müller avrebbe cercato in ogni modo di portarci dalla parte della vittima. Mentre si sa quanto sia stato più efficace l’Huckleberry Finn di Twain di tutte le capanne dello zio Tom anche sotto il profilo della sensibilità razziale.

Ecco: Joyce Carol Oates, in maniera molto sottile, la vittima ce la fa odiare, scandendo la vicenda a piccoli strappi, in una quotidianità apparentemente innocua. Tanto che le prime violenze subite da Minette (un libro buttato nel fango, disegni ambigui, lettere con scritte minatorie tipo «NIGGR GO HOME», segni sulla porta) all’inizio ci suscitano piacere. Io almeno ho pensato: te lo meriti, brutta stronza. Attenzione: né più né meno che se Minette fosse stata bianca, nonostante l’ostinazione della narratrice nel cercare di farcela stare simpatica per partito preso.

In ogni caso, nera o non nera, godiamo nel veder soffrire questa ragazza diciannovenne perché è noiosa, spocchiosa, bigotta, francamente insopportabile. E proprio qui il colore della pelle diventa un motivo in più, un facile istinto. Tra l’altro si noti che le carnefici qui sono donne, altro tabù violato da Joyce nel cliché moralistico dei giorni nostri in cui esistono solo uomini violenti e donne pacifiche di natura vittime di femminicidi, oppure leghisti razzisti intorno alla buona Kyenge (insindacabile perché nera, un brutto pregiudizio razzista).

Quando la situazione degenera è troppo tardi, proprio perché il racconto non ha fatto nulla per renderci simpatica Minette (arrivando perfino a farla puzzare), mentre il contesto di normali invidie e cattiverie collegiali scivola in tragedia prima di avere tempo di schierarsi dalla parte giusta. È questa la delicata e spietata grandezza di Ragazza bianca ragazza nera: come lettori siamo colpevoli anche noi, e ci troviamo di punto in bianco all’interno di una rappresentazione inedita dell’osceno: il nostro stesso sentimento. Un osceno dalla Oates ribaltato rispetto alla definizione classica di invisibilità, di essere appunto fuori dalla scena e fuori dalla pornografia (che rappresenta, al contrario, l’eccesso del visibile). Un osceno che diventa «ciò che, nell’istante in cui lo vedi, non puoi non averlo visto. E continuerai a vederlo. E continuerai a vederlo anche se ti cavano gli occhi».

Un magnifico romanzo antirazzista e per niente retorico che, volendo, sarebbe pure la scusa buona per un meritato Nobel. Meditate, svedesi, meditate.

Massimiliano Parente per il Giornale

Joyce Carol Oates (Lockport, New York 1938) ha scritto romanzi, racconti, poesie, lavori teatrali e saggi critici per i quali ha ottenuto il National Book Award e il PEN/Malamud Award. Dal 1977 insegna all’Università di Princeton e dal 1978 fa parte dell’American Academy of Arts and Letters. È unanimemente riconosciuta come una delle voci più importanti della letteratura mondiale contemporanea. Tra i suoi numerosi titoli ricordiamo: Bestie, L’età di mezzo, Un giorno ti porterò laggiù, Le cascate, La madre che mi manca, La figlia dello straniero, Sorella, mio unico amore, Uccellino del Paradiso, La Ragazza tatuata, La donna del fango e Ragazza nera, ragazza bianca, tutti pubblicati da Mondadori.

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