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Quando Roma era una paradiso di grandi maestri

   Tempo di lettura: 6 minuti

di Michela Murgia [1]

Una fan fiction – recita Wikipedia – è un’opera scritta dai fan prendendo come spunto le storie o i personaggi di un’altra opera originale di natura letteraria, cinematografica o televisiva. Non credo che Sandra Petrignani sappia nemmeno che esiste una cosa chiamata fan fiction, eppure Addio a Roma, il suo libro appena uscito per Neri Pozza, rientra a suo modo correttamente nella descrizione di quel fenomeno, con la complicazione che l’opera a cui risulta ispirato non è un libro né un film, ma la straordinaria scena culturale di Roma tra gli anni ’50 e i primi anni ’70.

Petrignani, con un artificio letterario in cui si è già dimostrata abilissima in La scrittrice abita qui, di quel mondo si pone a testimone con un realismo tale da convincere anche il lettore meno incline alla sospensione dell’incredulità a farsene complice insieme a lei. Come in ogni fan fiction che si rispetti, i personaggi non ha dovuto inventarseli: in quegli anni il romanzo del miracolo italiano camminava per i vicoli di Trastevere, beveva tanto al Caffè Rosati quanto nei più squallidi bar delle periferie, ballava la musica nuova nei locali, scriveva forsennatamente nelle soffitte e negli attici e esponeva tele mai viste sui muri delle cantine sopravvissute ai bombardamenti.

Nel 1952 Roma è un solco aperto dove tutti i semi che ci cadono possono solo crescer bene. Mentre muore Benedetto Croce e tutto quello che rappresentava, fiorisce nell’opera di Fellini e Flaino quel potente immaginario che farà di Roma una cartolina affascinante spedita al mondo intero. Mette radici anche l’arte grazie all’intuito di Palma Bucarelli, bellissima e nevrotica madrina delle avanguardie più temerarie. Crescono soprattutto letteratura e poesia; nelle pagine di Addio a Roma i loro autori – gente come Calvino, Parise, Arbasino, Ginzburg e molti altri – intrecciano aspirazioni d’eternità a passioni di piccolo cabotaggio con la naturalezza di chi tra la propria arte e la propria vita non veda in fondo alcuna differenza. Il Pasolini di Petrignani (tracciato su citazioni documentatissime) portava Moravia a cena in trattoria con i suoi ragazzi di strada, finché qualcuno di loro, ubriaco, non si addormentava addosso all’amico scrittore sotto gli occhi da divinità temibile di un’Elsa Morante descritta senza sudditanze. Vi compare anche Grazia Deledda, poco ma in modo sorprendente, come donna volitiva e disinibita, capace di imbastire una relazione extraconiugale con il critico letterario Emilio Cecchi e di cessarla solo per imposizione della moglie su quest’ultimo.

Il profilo delle donne d’arte e di lettere che emerge in questo libro è forse il suo tratto più prezioso e caratterizzante. Ignorate o ridotte a silenziose muse da altri testi che pure avevano la pretesa di far documentario dell’epoca, nel libro di Petrignani ritrovano invece un più credibile ruolo da comprimarie, che però non risparmia nulla alla loro scomodità caratteriale, né alla presa d’atto della marginalizzazione a cui anche intellettuali di grande respiro cercarono di relegare più o meno esplicitamente quelle loro compagne di vita e di arte.

Tra i ricami delle vicende dei nomi famosi si infila l’ago sottile della storia diciottenne di Ninetta, unico personaggio non storico del libro, che offre al lettore la prospettiva fresca ed entusiasta di chi, camminando consapevolmente accanto alla storia, si ritrovi d’improvviso con la fortunata possibilità di allungare la mano e sfiorarle la veste. Ninetta, alter ego nemmeno troppo nascosto dell’autrice, è anche l’araldo narrativo di un tempo diverso, che porterà in sé non solo la novità del ’68, ma pure i prodromi di quel declino culturale che farà dire amaramente a Flaiano: “coraggio, il meglio è passato”. Ninetta, che a quel meglio è destinata a sopravvivere, incarna bene la silouette sottile della modernità che ci è rimasta in mano.
Sin dal titolo, con quell’Addio che preannuncia un congedo definitivo, il libro rivendica come nota dominante una sorta di malinconia da giovinezza perduta, il rimpianto per l’ultimo tepore di una supernova che ci ha messo quarant’anni a smettere di splendere, abbastanza da illuderci di esserne noi il riflesso. Se non sapessimo che Sandra Petrignani era una bambina quando è avvenuta la maggior parte dei fatti che racconta, potremmo immaginarcela facilmente come un’anziana signora sopravvissuta al suo tempo per vedere tutti gli amici e i maestri andarsene prima di lei.

C’è una memoria da vestale in queste righe, ma senza alcuna solennità. La sensazione che resta sulle dita non è di muffa devota: ha piuttosto il riflesso verde dell’invidia ammirata. A sentire la passione con cui Roma emerge da questo Addio, ritornano vere come un’accusa le parole del solito Flaiano all’inizio degli anni ’70, quando da piazza Navona guardava il Cafè Rosati pieno della nuova gioventù in cappelli lunghi e jeans e commentava ironico con Mazzacurati: “guardali, credono di essere noi”. Credere proprio no, davvero non lo si è mai creduto. Ma quanto al volerlo, nessuno sa fino a che punto.

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