Lettera aperta di una libraia leggermente stanca

   Tempo di lettura: 7 minuti

di Geraldine Meyer

Mai come in questo ultimo periodo si sente parlare di crisi dell’editoria, di librerie che chiudono. Ha fatto scalpore, dando inizio al dibattito, la chiusura a Milano della storica libreria di Porta Romana. Da lì si è cominciato a parlare di librerie indipendenti schiacciate dai costi insostenibili, di gestione e affitti. Curioso che in un paese di non lettori ci si sia accorti all’improvviso di cosa voglia dire fare i librai. Cercherò di chiarire, soprattutto a me stessa, di cosa si sta parlando. Perché, a volte, ho la sensazione di trovarmi in una situazione ipocrita e mistificante. Come quando un anziano pone fine ai suoi giorni distrutto dalla solitudine e i parenti, che mai sono andati a trovarlo, piangono calde lacrime e vomitano parole di rimpianto. Intanto vediamo di capire cosa significa librerie indipendenti.

Tecnicamente sono quelle librerie che non appartengono ai grandi gruppi editoriali. Nella sostanza sono quelle librerie che, proprio per questo, di indipendente non hanno proprio nulla. A partire da una politica di acquisti spesso sconsiderata per un malinteso senso di commercio e quindi di do ut des. E qui cominciano le dolenti note. Il vittimismo spesso nasconde una straordinaria incapacità imprenditoriale da parte degli stessi librai. Non di tutti per carità. Però è innegabile che, nel corso degli anni, noi librai per primi, abbiamo spesso consentito che editori e promotori comandassero in casa nostra. E il problema è diventato strutturale, non solo di scontistica. Succede che quando ci si crede più deboli dell’interlocutore si sia portati a ritenersi ricattabili.

Certo lo sconto ha contribuito non poco a creare una situazione di sofferenza finanziare per molte librerie, ma spesso è diventato un comodo, per quanto comprensibile alibi, per non parlare di altri problemi. Uno su tutti è stato quello di considerare le librerie come magazzini degli editori. Obiettivi economici studiati a tavolino, con criteri di marketing spesso slegati dalle effettive capacità di assorbimento delle librerie, hanno portato editori e società di promozione a caricare i negozi di quantitò di libri assolutamente ridicole. Finendo con il creare un mercato dopato da cifre non corrispondenti all’effettivo giro d’affari. Il tutto aggravato da tempi di accredito delle rese decisamente lunghissimi e una conseguente esposizione bancaria da parte delle librerie troppo impegnativa. In Italia manca una seria e costruttiva sinergia tra editori e librerie come accade, per esempio, in Germania. L’editore fa i suoi piani di vendita, si affida alla promozione che, a sua volta, fa un badget. Quando la filiera arriva alla libreria questa si trova già, fisiologicamente, a dover farsi carico del piano marketing di due soggetti a lei estranei. Parlo per esperienza diretta.

Per qualche tempo ho fatto la venditrice per un gruppo promozionale. Ci dicevano quali erano le previsioni di vendita dell’editore. Ad ogni libreria veniva abbinato un certo numero di copie. Se il libraio ne ordinava meno del previsto, l’obiettivo veniva raggiunto con un bell’invio d’ufficio. Così il libraio che ne aveva ordinate solo due, per esempio, se ne vedeva arrivare cinque. Le metteva subito in resa ma l’accredito, ovviamente, arrivava successivamente alla fattura relativa a quella fornitura. Cornuti e mazziati dunque. Questo accadeva e non era certo un’eccezione nella politica di vendita. A parte tutte le altre considerazioni viene anche spontaneo chiedersi a cosa servano i promotori. So che sto dicendo parole grosse ma davvero spesso, non sempre ovvio, alcuni di loro finiscono con il diventare dei semplici collettori di ordini. Girano con i loro copertinari relativi a libri di cui spesso non sono neanche riusciti a conoscere il contenuto. Il tutto che ricadute ha?

Una catena di operatori e figure intermedie che certo non snelliscono i costi. Ci sono delle lodevoli eccezioni. Ed è bene sottolinearlo. Alcuni di questi promotori sono davvero dei preziosi interlocutori per noi librai ma, molti diventano, loro malgrado, dei semplici esecutori di strategie decise a tavolino da signori che della libreria non sanno molto. Ho letto in questi giorni sul blog di Sul Romanzo un post in cui si parlava di legittima esigenza del consumatore al risparmio. Ma i prezzi di copertina chi li fa? I librai o gli editori. E gli aggiornamenti di prezzo che settimanalmente arrivano per mail? Libri il cui prezzo aumenta di 1, 1.50, o anche 2 euro in una volta? E non si tratta di nuove edizioni, con nuove traduzioni o almeno nuove introduzioni. No no. Sono gli stessi libri.

Molti di questi sono tascabili. I così detti “economici”. Che arrivano a costare anche 13 o 14 euro. Economici? Tanto la faccia la mette il libraio che poi si sente chiedere (non sempre gentilmente) dal cliente alla cassa “mi fa lo sconto?” Se c’è una legittima esigenza di risparmio per i consumatori, c’è anche una legittima esigenza dei librai di essere considerati dei professionisti. E non sempre accade. Se alcuni clienti delle librerie che hanno chiuso non avessero fatto dello sconto l’unico motivo per frequentarle magari alcune di quelle librerie sarebbero ancora aperte. Magari no, ma magari sì. Per questo dico che lo sconto che un editore fa al libraio può essere un problema ma non è certo il più grande. Certo se la libreria funziona accade che si riescano a contrattare condizioni di pagamento (sconto e tempi di fatturazione) migliori.

Ma spesso è un serpente che si morde la coda. In più è un continuo sentirsi sollecitati a fare ordini superiori a un certo importo per avere allungamenti di pagamento. Improvvisamente editori e promotori diventano generosi con noi librai? O non sanno più come svuotare i loro magazzini? Allora di cosa parliamo quando si parla di crisi delle librerie?

Grazie dell’attenzione Geraldine Meyer

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