Come riconoscere un libro brutto da alcuni inequivocabili segnali: premessa

   Tempo di lettura: 6 minuti

di Paola Manduca

Con questo articolo, si vuole inaugurare un ciclo didattico su come riconoscere – e aderendo al progetto evitare – un libro brutto. Sarà bene intendersi.

Che cos’è un libro brutto? Un libro brutto è una qualsiasi sensazione tra l’amaro in bocca e la grande delusione, un primo appuntamento andato male, un vestito acquistato e poi mai messo; nei casi più gravi è come un bluff amoroso, di quelli che, per fortuna, non fanno troppo male eppure un pochino pesano lo stesso, perché la brutta fine di una storia non è mai bella. Un amico una volta mi ha detto che prova verso i libri brutti la stessa sensazione di quando da ragazzo giocava a pallone e una partita finiva 0 a 0.

Un libro è brutto quando è ridicolo o quando fa incazzare ed è bruttissimo quando ti lusinga troppo, come certe persone che mentre parli annuiscono in continuazione.

Un libro è brutto quando non ci piace, vale a dire non piace a noi, eppure niente può trattenerci dal giudicarlo oggettivamente brutto. Sui libri sono davvero pochi quelli disposti ad ammettere la parzialità del proprio giudizio, e quei pochi mi fanno paura, perché non hanno capito niente dell’amore.>>

Il libro è brutto anche perché, quando c’è modo di discuterne, il proprio parere è ostinato come in un’assemblea di condominio, perentorio e instancabile, dettato dal necessario piacere di provare, se non a convincere, quanto meno a sfiancare l’interlocutore. D’altronde la delusione per il fallimento di quel rapporto intimo tra noi e Lui è a volte così grande da rendere comprensibili i sussulti appassionati che ne conseguono. Perché il libro brutto è un compagno di viaggio che ci tradisce a viaggio cominciato: noi credevamo di fare chissà quali cose e invece si rivela di una noia mortale, o peggio è stupido; oppure perché scopriamo che alla fine nemmeno lui in realtà voleva noi, preferendo altri compagni di letto. E come quando si torna da un viaggio deludente, l’unico sfogo possibile è parlar male, e con passione, di quello/a che ce l’ha rovinato.

Il libro è brutto quando contiene parole banali, aggettivi sbagliati e intenzioni furbe. E quando il gioco seduttivo che vuole instaurare con noi ha le sopracciglia a forma di gabbiano. Per non parlare poi del fattore tempo: un libro brutto non è affatto un isolante temporale, al contrario ti fa pensare al tempo che stai perdendo o hai perso nel leggerlo, che avresti impiegato piuttosto a rubare pesche da un albero, a fare una sciarpa coi ferri, a imparare come si prepara la pasta con le sarde.

Senza invocare roghi censori, una qualche forma di catarsi deve pur esserci e qui il suggerimento è che possa trattarsi del passa-parola: bei libri o bellissimi film diventano ‘casi’ con la semplice azione del bisbiglio, perché non fare lo stesso con i brutti?

Il libro è brutto quando inaugura una moda nella quale non ci si riconosce miniminamente, e tanto più lui piace, tanto più lo sconforto personale diventa cosmico perché l’ipermetropia culturale non scalda i cuori e non dà alcun genere di conforto. Saper riconoscere dei libri orrendi mentre il mondo lì fuori li ‘divora’ , beh non è il massimo dell’allegria. Tornano alla mente le parole di Cesare Pavese: “la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente”.

Questa premessa vale soprattutto per le decine di ‘casi editoriali’ che ci propinano ogni anno, le nuove penne dalla gallina d’oro, le forme istantanee di genialità che il marketing posiziona sugli scaffali della cultura solubile ma può essere estesa, con le opportune cautele, anche ai capolavori.

Se prima i comuni mortali vivevano nel silenzio del proprio senso di inferiorità lo sbilanciamento tra la fama indiscussa del genio e la noia provata in prima persona, da qualche anno a questa parte è in atto una sana rivoluzione verso coloro che per millenni ci hanno inflitto sbadigli e incomprensioni come Dante e Joyce, o più di recente Umberto Eco e Marquez. Oggi gli uomini costretti a leggere “Cent’anni di solitudine” dalle loro fidanzate che lo trovano il libro più bello del mondo, quelli che per mandare giù la descrizione del portone de Il nome della rosa hanno fatto ricorso ad allucinogeni, quelli che, incuriositi dal Nobel, hanno letto per la prima volta Herta Muller ma poi hanno pensato “svedesi tutti appesi”: ebbene, per tutti loro è il momento di togliersi un peso, senza più il rischio di una condanna sociale.

E’ tuttavia evidente che occorre una premura verso i classici che i contemporanei non meritano: lo sforzo va comunque fatto, perché per demolire una tesi valida occorre una preparazione seria, e l’abbandono precoce di un libro può rivelarsi da sprovveduti, perché avremo vissuto ugualmente la sofferenza di leggerlo ma senza arrivare alla catarsi del giudizio finale.

Il dibattito è appena cominciato.

per BookAvenue, Paola Manduca


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