Quando un libro è noioso

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A chi non è successo di trovarsi tra le mani un libro insopportabilmente noioso? Ma spesso, quando succede, il lettore comune si sente inadeguato, magari imputando alla propria impreparazione la difficoltà di digerire quelli che genericamente chiamiamo mattoni. Tutto questo accade anche ai professionisti della scrittura?

Sono andato a chiederlo ad alcuni scrittori, gente meglio attrezzata del lettore medio, almeno teoricamente. Ho domandato loro il titolo di un libro nel quale erano inciampati, che avevano trovato indigesto, al di là che fosse considerato un capolavoro, un classico, un best seller o una delle ultime imperdibili novità. E ognuno di loro mi ha risposto in maniera coerente, mostrandomi oltre al libro che citavano un aspetto della propria natura. Insomma, gli scrittori anche quando non scrivono, creano materiale che racconta.

Così, per esempio, Salvatore Niffoi, nonostante il mio assedio, non s’è fatto cavare di bocca nemmeno un titolo. Lui, di turroni come mi ha spiegato che si dice in sardo , non ne prende. Ha un suo modus operandi che lo tiene lontano dalle fregature. Innanzitutto non legge mai novità e best-seller. Ma, soprattutto, assaggia «come si faceva con l’anguria». E ha rievocato certe figure che fanno parte anche della mia infanzia che, un tempo, facevano un tassello nel cocomero e te lo facevano assaggiare, prima che te lo comprassi. «Dall’incipit già sai. Ti bastano due pagine per capire chi hai davanti» mi dice. Ma io nel naso ho ancora quell’odore dolce dell’estate di tanti anni fa.

Erri De Luca invece è secco e nodoso come è lui fisicamente, scavato come un ulivo o come Eduardo. Mi corregge subito non so se per rimproverarmi una improprietà linguistica o per scherzare e mi dice: «Indigesti nessuno, non li mastico i libri». E poi continua: «Ma diversi libri solenni mi sono caduti di mano» ecco il peso del mattone «perché per me intransitivi. Uno tra tanti L’uomo senza qualità (Musil)».

Tutt’altro che spigoloso, anzi sornione come un gatto, è Alberto Bevilacqua. Giochicchia senza tirare fuori gli artigli, all’inizio, pigramente, con indolenza, dicendo che “L’uomo senza qualità” e anche la “Recherche” (Proust) sono testi pesantucci. Ma è evidente che non saranno loro la sua preda. «L’atteggiamento che va colpito è l’attitudine perversa della gente di citare cose che non ha mai letto» mi dice. Ecco, il gatto ha tirato fuori le unghie. «Il Capitale, per quanto non voglia negarne l’importanza, è un testo insopportabile. Solo dei maniaci possono averlo letto per davvero. Io sono sicuro che nemmeno Stalin l’aveva letto!» Ridiamo.

Già, citare anche se non si è letto. O magari leggerlo perché è di moda. È quello che è successo a Giorgio Faletti. «On The Road di Kerouac non potevi non averlo letto negli anni ’70. Eri uno sfigato se non ce l’avevi in tasca». Bukowski aveva un suo perché, anche se non lo faceva impazzire. Ma Kerouac l’ha trovato veramente sopravvalutato. «E non è il solo» mi dice. «In quegli anni ho ascoltato certi imperdibili cantautori che piuttosto avrei pagato due milioni per un cartone di Gatto Silvestro».

«Ne parlavano tutti e ne dicevano meraviglie» esordisce anche Loriano Macchiavelli. Lui la fregatura l’ha presa per passaparola. «Ho resistito fino alla dodicesima edizione e poi ho ceduto. Non sono andato oltre pagina 65. Delle verdure tritate e dell’innocenza di una serva non me ne fregava niente. Per me, come direbbe Fantozzi, La ragazza con l’orecchino di perla (Tracy) è una solenne boiata».

E anche Raffaele La Capria si schiera contro le mode. «I lettori trovano la lettura di De Sade un’esperienza importante, in me invece ha evocato solo ostilità». Non noia, ostilità. Credo che sia il giudizio più forte che ho raccolto, ma pronunciato con voce calma e distaccata. Chirurgica.

Il suo amico Ermanno Rea, al contrario, è un affabulatore, riempie l’aria di suoni e sorrisi. Si diverte e nello stesso tempo s’affatica a cercare “il mattone perfetto”, come lo chiama. Mi cita libri di filosofia ma lo sento poco convinto. Insisto. «La montagna incantata (Mann) è un romanzo estremamente formativo ma effettivamente un po’ gnocco (aggiungo il termine al turrone di Niffoi). «E gnocco è anche il capitolo del grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov (Dostoevskij)». Ma non è veramente convinto. Fa una pausa, pensa, ragiona. E poi, con grande autoironia, sorride e mi confessa: «Be’, io temo di avere una tendenza naturale per le cose un po’ gnocche».

In generale, comunque, tutti gli scrittori hanno avuto bisogno di fare un giro nel loro archivio dei ricordi e delle emozioni. Invece quando lo chiedo a Valerio Magrelli sento un sospiro di sollievo e poi un unico fiato liberatorio. «Per carità, c’è voluta tutta la mia volontà per finire Il tamburo di latta (Grass). Bello ma veramente indigesto». E a riprova di quanto sia sentita la sua emozione aggiunge: «Come farina per un celiaco!».

E infine arriviamo a Dacia Maraini, l’unica scrittrice alla quale ho posto la mia domanda. E se l’ho lasciata per ultima non è per mancanza di galanteria, ma perché lei mi ha svelato un intero arco amoroso, con tutti i suoi alti e bassi. Il suo racconto è poetico e, se non fosse politicamente scorretto fare questi distinguo in tempo di quote rosa, direi che è molto femminile. «Lessi Gente di Dublino sentendomi presa per mano da un autore stravagante e intelligentissimo (James Joyce) che mi portò lungo le strade strette e puzzolenti di Dublino, facendomi incontrare le teste ubriache, le donne infedeli, i bambini terribili di una Irlanda messa a nudo». È il primo incontro, la fascinazione. «Subito dopo ho letto Ritratto dell’artista da giovane e mi è piaciuto tanto». Ecco, la passione è sbocciata. «A questo punto ho pensato che era venuta l’ora di affrontare l’Ulisse». La parte seria di una relazione che deve diventare seria. «E lì ho trovato molte difficoltà». Le spine. «Ma siccome sono una testona e non mi piace lasciare i libri a metà, ho continuato. Alcuni capitoli mi hanno profondamente annoiata. Altri li ho trovati godibilissimi». E questo sì è un atteggiamento femminile riguardo all’amore, onesto. «Dopo avere letto l’Ulisse, per un po’ mi sono tenuta lontana da Joyce, ne ero sazia. Ma io amavo quello scrittore dalla faccia lunga e gli occhiali tondi, quella testa aerea e magmatica, quel pensiero crudele e affettuoso nello stesso tempo, quella carnalità sempre in bilico fra gli eccessi e l’ironia malevola su quegli stessi eccessi». La passione bruciante si è spenta. Ma rimane un sentimento sincero, profondo, che pretende un ultimo incontro. «Mi sono imposta di leggere tutto Finnegans Wake. Ma devo dire sinceramente che è stata una tortura. Era un libro geniale più che una lettura emozionante. Era un’invenzione che parlava più all’intelletto che ai sensi. Insomma una piccola tortura imposta dal mio senso del dovere letterario». E una bellissima storia d’amore.

Alla fine della mia breve indagine, mi rendo conto che le risposte intelligenti e argute di questi autori, anche quando la criticano, mostrano tutto il loro amore per la scrittura. Credevo di raccontare solo uno scrittore che si prende una fregatura come un comune lettore e invece mi ritrovo a dare conto di una loro controsegnalazione, se vogliamo chiamarla così. Che sia artistica o sociale, che infranga un luogo comune letterario o un vizio della società.

Luca Di Fulvio
(dal Messaggero)

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