Il ritorno di Telemaco

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   Tempo di lettura: 9 minuti

copertinaPrendete Sunset Park, staccate la copertina (se vi riesce di farlo) e incollate le pagine in coda a Follie di Brooklyn.  Lo avete fatto? Bene: andate all’inizio dei due libri, che sono diventati uno solo, e cominciate a leggere.
Mi sembra che Paul Auster abbia voluto scrivere una elegia alla città di NY, dove abita, attraverso due storie verosimilmente uguali sotto il profilo della tensione emotiva, dei luoghi e dei meccanismi psicologici che stanno nella scatola nera dei personaggi.

Entrambi i libri tracciano una linea tra il personale e il collettivo, tra i destini individuali e quelli di tutti gli altri. In “Follie di Brooklyn”, ricordate?, Paul Auster ha usato una libreria del benestante quartiere di Park Slope come luogo di destini incrociati, a dirla col titolo del libro di Calvino, qui, invece, incornicia la storia intorno a una casa del quartiere semi-miserabile di Sunset Park.

Primo paradigma: a guardare la cartina stradale, percorrendo la 4th Avenue, i due quartieri distano a solo sette fermate di metropolitana tra i due lati del Greenwood Cemetery; moltissime di più se usassimo le stesse per misurarne la distanza in termini di condizione economica.

E’ in questo quartiere che Miles, il protagonista, si rifugia da quando è inseguito dalla Florida dopo essersi innamorato di una ragazza minorenne di nome Pilar. E il suo arrivo mette in moto una promessa di riconciliazione con i suoi genitori dai quali si è separato a causa di un esilio auto-inflitto dopo una terribile tragedia familiare. Ma è anche l’occasione per tentare una riconciliazione con il suo passato e con se stesso.

Perchè è inseguito? Ci arrivo.
Miles Heller ha rotto con suoi genitori e se ne andato di casa da oltre sette anni, da quando ha abbandonato il college e iniziato una lotta contro i sensi di colpa che lo hanno trascinato via a causa dell’incidente d’auto che provocò la morte del fratello Bobby.
Ha 28 anni, e vive in Florida dove lavora come “trasher out” (qualcosa come, uno fa che fa sgomberi) di case pignorate e lasciate dagli inquilini sfrattati a causa della crisi. Ha una vita semplice, è felice o crede di esserlo. Il suo è un buon lavoro e gli consente di investire sulla sua passione: la fotografia.

Secondo paradigma: le foto; le sue, sono le immagini delle case svuotate in cui lavora. Sono immagini di qualcosa che era e non lo è più. Qualcosa che poteva continuare ad essere e non lo è più a causa del fallimento cui la crisi ha ridotto le vite.

Ha incontrato una ragazza, Pilar, una immigrata della quale si è innamorato e con la quale convive; il guaio è che Pilar Sanchez è minorenne. Certo, compirà diciotto anni molto presto, ma fino ad allora, Miles deve mantenere la sua relazione segreta.
Pilar è sorella di una nidiata di fratelli governati da una sorella maggiore la quale, durante una vacanza, minaccia Miles con una sorta di ricatto che lo lascia basìto: lei lo denuncerà alla polizia di avere rapporti illeciti con una minorenne se non ruba per lei nelle case su cui lavora. A causa di questo ricatto, tutto sembra crollare addosso al nostro protagonista: deve andarsene in attesa che la ragazza diventi maggiorenne.
Una volta che gli eventi costringono Miles a tornare a New York, si trasferisce con altri tre ventenni in una casa abbandonata in un quartiere di Brooklyn chiamato, appunto, Sunset Park.

Qui, Paul Auster sposta la narrazione su ciascuno di loro che, come Miles, fanno i conti con il loro breve passato e il presente. Bing Nathan, il leader auto-nominato, è un amico di scuola di Miles che fa il batterista in un gruppo jazz durante il fine settimana e gestisce un negozio di riparazioni di qualsiasi cosa. C’è Alice Bergstrom, una studentessa che sta scrivendo la sua tesi sulle ricadute della fine della guerra sulle relazioni famigliari attraverso lo sguardo di un film: “I migliori anni della nostra vita”. Infine, c’è Ellen Brice, che lotta da un errore di anni prima al college e sembra aver trovato uno sbocco attraverso la pittura e il disegno erotico mentre cerca di sfangarla come venditrice di case.
Bing e il suo piccolo esercito di abusivi a Sunset Park fanno parte di una generazione di ventenni, con un’istruzione universitaria, uomini e donne perennemente a corto di denaro, capaci di sopravvivere in un buco fatiscente con lavori part-time per risparmiare quanto serve da investire sulle loro attività personali. La decisione di trasferirsi nella casa abbandonata è pratico e (diciamolo: molto di sinistra, quindi politicamente corretto), un modo per risparmiare denaro, ma anche una piccola ribellione contro il sistema del caro-affitto.
Nelle mani di Paul Auster, la banda Sunset Park riflette una idealizzazione irrealistica di resistenza giovanile e artistica alla cultura predatoria del capitalismo.
Nelle mani di Paul Auster, Sunset Park assume toni da sogno, diventare un mondo desolato, luogo immaginario per viandanti della malinconia.

Terzo paradigna: la loro casa è lo specchio del negozio di riparazioni.

I loro problemi e le loro derive, ma pure una varietà di sfumature sessuali, non richiedono un grande salto per vedere che la casa potrebbe essere un altro “ospedale per le cose rotte”. In un passaggio fondamentale, Miles riflette sul perché, anche se un figlio di una famiglia borghese, sia finito in un appartamento occupato, temendo l’arrivo delle autorità alla porta: “L’unico problema sono i soldi”, dice, lo stesso problema che tutti gli altri si trovano ad affrontare. Non ha più un lavoro e dei tremila dollari che ha portato con se dalla Florida non rimangono che pochi penny. Gli piaccia o no, si sente fregato.

Quarto paradigna: Miles è un simbolo di quello che accade all’America del 2008 e dei beni fotografati nelle case abbandonate dai residenti in Florida che non erano più in grado di permettersi il mutuo.

Finisco con una frase di Paul Auster, perché delinea molti dei temi di Sunset Park: si chiede, e chiede ai suoi lettori, se Sunset Park, se il suo centro, non sia altro che la parola “casa” e il suo significato. Lo fa tramite il suo Telemaco all’incontrario mentre torna dal suo Ulisse a bordo del taxi. Questo pensiero si fonde sul poeta Omero, che a sua volta conduce Miles, a lungo estraniato dalla sua famiglia, per capire se stesso come il ritorno di Telemaco ora riunito con il padre. Il che non è del tutto metaforico, anzi.
Che dimensione sentimentale diamo ad essa? È una sede in una determinata posizione geografica?, un centro che risuona con un significato personale e culturale?, la “casa” è un luogo, il solo, che associamo alla persona che amiamo? Possiamo sentirci “essere a casa” solo nelle nostre teste? La nostra “casa” è solo dove la nostra famiglia si trova? E, ancora più problematico, cos’è ciò che costituisce esattamente una famiglia?

Ancora una volta la lettura di una storia di Paul Auster è come guardare una folla di pendolari in un atrio della metropolitana o come sbirciare nelle vite dietro i volti di una ressa su un marciapiede dalle parti di Times square mentre il vapore sbuffa con forza dai tombini di sotto e la strada è affollata di macchie gialle degli yellow cab. Paul Auster è un genio letterario, sempre scrupolosamente in costante controllo della struttura, il tono e il punto di vista. Uno qualsiasi dei suoi romanzi potrebbe essere utilizzato per istruire un’apprendistato di scrittura.

I suoi libri si sentono e si vedono come davanti ad uno schermo e Sunset Park come le Follie di Brooklyn in modo esemplare.

per BookAvenue, Michele Genchi

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