Nella Chiesa c’è chi dice no

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di Michela Murgia

In un paese come l’Italia, l’unico al mondo dove ogni mercoledì quel che dice il Papa alla sua udienza settimanale è considerato notizia degna di rilievo da telegiornale, non poteva che passare sotto silenzio l’avvenimento che ha invece scosso l’informazione di mezza Europa: ai primi di febbraio 143 teologi austriaci, tedeschi e svizzeri hanno firmato un documento di dissenso interno alla Chiesa e lo hanno reso pubblico sui principali quotidiani.

Le richieste dei professori e delle professoresse di teologia toccano una serie di questioni gravi e scottanti: si va dall’urgenza di maggiori spazi di confronto ecclesiale alla libertà di coscienza su questioni come il divorzio e le coppie gay, dalla messa in discussione del celibato dei preti per finire con l’annosa questione della negazione del sacerdozio femminile. I firmatari sono figure forti e preparate, persone che sanno bene di avere, su quei temi, un consenso ben più ampio di quello legato alle loro pur numerose firme. Ma sanno anche che si tratta di un plauso non sempre libero di esprimersi, pena la ritorsione da parte dei vescovi. Nella Chiesa cattolica infatti il dissenso non è considerato un valore, men che mai quando si presenta con autorevolezza teologica, terreno su cui è stato storicamente contrastato in ogni modo, anche a costo di spingere i dissenzienti a ferite scismatiche. I teologi dell’appello definiscono questo atteggiamento di chiusura come “pace tombale”, attribuendogli la colpa della paralizzante autoreferenzialità della Chiesa attuale.
Non è stato sempre così: ci sono stati periodi più felici, in cui il dialogo è stato fecondo e ha goduto di un certo incoraggiamento. Ma oggi l’accoglienza di impulsi critici sembra svanita, le strutture di partecipazione alle decisioni della vita ecclesiale sono state depotenziate e la gerarchia vaticana dimostra di preferire di gran lunga il dialogo con gli atei devoti, piuttosto che quello con i cristiani critici. L’ateo devoto, comicamente detto anche “rispettoso”, è figura molto comoda per una gerarchia reazionaria, perché conferma le posizioni in gioco e le mette in scena in un apparente teatrino dialettico.
Dialogare con l’ateo è andare piacevolmente controcorrente, mentre mettersi davanti al credente non allineato implica invece l’accettazione di un con-corrente, uno che crede le tue stesse cose e non le desidera meno di te, ma reclama il diritto di dire che ci arriverà per un’altra strada, insinuando la prospettiva che di strade buone ce ne siano più d’una.
Se l’ateo devoto è confermante al punto che può persino presentare in Vaticano l’ultimo libro del Papa, il dissenso dei cristiani destabilizza talmente le gerarchie che quando si manifesta in forma organizzata l’unica reazione è quella di passarlo sotto silenzio. Lo sapeva molto bene Adriana Zarri, la teologa eremita scomparsa alla fine dell’anno scorso, che
con l’etichetta di cristiana critica e il conseguente silenzio ha convissuto per tutta la vita, senza permettere mai che il suo spirito critico venisse staccato dal suo percorso spirituale: «Chi mi conosce sa che la mia inclinazione più profonda non è il polemismo episodico, e che il “dissenso” mi interessa solo in quanto riscontro diretto e necessario della contemplazione».
Leggersi Un eremo non è un guscio di lumaca, il suo splendido testamento spirituale, può essere un farmaco confortante: in attesa che vengano i tempi in cui l’eco di un sano dissenso cattolico potrà varcare le alpi senza sembrare sovversivo ai nostri pavidi mezzi di informazione.

 

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